Posts Tagged 'morbo di Alzheimer'

L’olio alleato prezioso per la salute

 

 

 

 

 

 

 

 

Non è solo un protagonista delle nostra tavola, ma un prezioso alleato per la nostra salute: il valore dell’olio extravergine di oliva per la prevenzione di alcune tra le piu’ importanti malattie, tra cui tumori, diabete e malattie cardiovascolari, è stato sostenuto ad Arezzo, nel corso del convegno “Olio e salute” che si è svolto il 15 maggio 2010, nell’ambito di Medoliva, la manifestazione internazionale sull’extravergine di qualità in corso al Centro Fiere e Congressi di Arezzo. Organizzato dalla Regione Toscana, attraverso Arsia (l’Agenzia per lo Sviluppo e l’Innovazione in campo agricolo) e Ars l’Agenzia Regionale di Sanità il convegno ha permesso di riunire esperti del settore medico e biochimico, ma anche epidemiologi, nutrizionisti e produttori sia per approfondire il ruolo che questi oli possono assumere nella prevenzione di alcune importanti malattie sia per valutare il conseguente interesse che queste acquisizioni possono avere per il comparto olivo-oleicolo.

Numerose ricerche dimostrano che le popolazioni mediterranee si ammalano meno rispetto a quanto avviene nei Paesi dell’Europa del Nord e degli Stati Uniti, e l’olio d’oliva è il prodotto che maggiormente contraddistingue l’alimentazione di queste popolazioni, la cosiddetta dieta mediterranea. Questi effetti, si è ribadito oggi al convegno, sono già stati studiati a lungo nel campo delle malattie cardiovascolari ma più recentemente è stato anche ipotizzato un possibile effetto protettivo dell’olio di oliva nei confronti dell’insorgenza di alcuni tumori e del diabete, e nella prevenzione del declino della funzione cognitiva. Sospettati degli effetti benefici sono soprattutto i fenoli, potenti sostanze antiossidanti presenti nell’olio, che contribuiscono a difendere le nostre cellule dai danni ossidativi e che quindi proteggono i lipidi plasmatici (in questo modo si previene per esempio l’aterosclerosi), e il Dna (queste sostanze sembrano ridurre il rischio delle lesioni ossidative, diminuendo il rischio che si formino cellule tumorali). L’evidenza epidemiologica di una minore incidenza di tumori nelle popolazioni mediterranee (Italia, Spagna, Grecia) che nel Nord Europa, è supportata dai risultati di studi sperimentali che mostrano una riduzione del danno ossidativo. Inoltre gli acidi grassi monoinsaturi dell’olio di oliva sembrano avere un effetto protettivo contro il declino cognitivo legato all’età e al morbo di Alzheimer.

“In conclusione – ha detto il dottor Domenico Palli, direttore dell’Unità Operativa di Epidemiologia molecolare e nutrizionale dell’istituto per lo studio e la prevenzione oncologica di Firenze – l’olio di oliva extravergine di alta qualità può svolgere un ruolo rilevante nella promozione di abitudini alimentari più corrette e mirate alla prevenzione delle principali malattie cronico-degenerative“. 

Estratti di Ginkgo: nessun effetto sul declino cognitivo

Non è stata trovata evidenza di un effetto degli estratti del vegetale sulle funzioni cognitive globali né su specifici domini di memoria, linguaggio, attenzione.

I soggetti anziani che utilizzano supplementi erboristici a base di Ginkgo biloba per molti anni non vedono rallentato il proprio declino cognitivo se confrontati con soggetti equivalenti che assumono placebo: è questo il risultato di uno studio pubblicato sulla rivista JAMA.

“L’estratto di Ginkgo biloba è commercializzato su scala mondiale e utilizzato con la speranza di migliorare, prevenire e ritardare il deficit cognitivo associato all’età e i disturbi neurodegenerativi come l’Alzheimer”, scrivono gli autori. “In effetti, negli Stati Uniti, ma ancor più in Europa, i preparati a base di questa specie vegetale rappresentano il trattamento erboristico più diffusamente utilizzato per prevenire il declino cognitivo legato all’età”.

Tuttavia, l’evidenza scientifica dei grandi trial clinici riguardo ai suoi effetti sul funzionamento delle capacità cognitive a lungo termine è del tutto mancante.

Beth E. Snitz e colleghi dell’Università di Pittsburgh hanno analizzato i risultati dello studio denominato Ginkgo Evaluation of Memory (GEM) per determinare se gli estratti della pianta siano in grado di indurre un rallentamento del declino cognitivo in pazienti anziani con un livello cognitivo normale o un lieve deficit all’inizio dello studio.

Precedentemente, nell’ambito dello stesso studio era stato evidenziato come l’estratto di Ginkgo biloba non sia efficace nel ridurre l’incidenza della demenza da Alzheimer o di ogni altra forma.

In quest’ultima analisi dei risultati, il più ampio trial controllato e randomizzato finora effettuato a questo scopo, i ricercatori non hanno trovato evidenza di un effetto del Ginkgo biloba su variazioni cognitive globali e né evidenza di un effetto su specifici domini di memoria, linguaggio, attenzione, abilità visuospaziali e funzioni esecutive.

Inoltre, non sono state evidenziate differenze negli effetti del trattamento per età, sesso, etnia, educazione o stato cognitivo di base.

“In definitiva, non c’è evidenza del fatto che Ginkgo biloba rallenti il ritmo del declino cognitivo negli anziani. Questi risultati sono in accordo con precedenti studi minori sulla prevenzione del declino cognitivo o sulla facilitazione delle prestazioni cognitive e con la revisione Cochrane del 2009 per demenza e deficit cogntivo.” 

Fonte LeScienze

Morbo di Alzheimer: scovata la proteina «salva neuroni»

neuroneLa mutazione “recessiva” di un gene alla base della malattia di Alzheimer. E una possibile cura contro il morbo, scoperta per caso, che arriva da una proteina. Entrambe le scoperte “made in Italy”, pubblicate su Science, portano la firma dei ricercatori dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano e dell’Istituto Mario Negri, che hanno lavorato in collaborazione con l`Università degli Studi meneghina, il Centro Sant`Ambrogio-Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio e il Nathan Kline Institute di Orangeburg (New York, Usa). La mutazione genetica scoperta, spiegano gli studiosi, si eredita da genitori sani e può provocare forme molto gravi di questa malattia neurodegenerativa di cui in Italia soffrono 450 mila persone.

La scoperta – Gli esperimenti sono cominciati partendo dal caso di un singolo paziente che, a 36 anni, presentava una grave forma di demenza senile senza però avere alcuna predisposizione familiare alla malattia. Quando l’Alzheimer è ereditario, infatti, nell’albero genealogico familiare sono normalmente presenti più persone colpite dal morbo. E basta ereditare una sola copia del “gene della demenza” per ammalarsi anche gravemente: ma non era questo il caso.

La mutazione del gene APP – Tra le mutazioni genetiche note agli scienziati come cause della demenza degenerativa vi è la mutazione del gene APP, che favorisce la formazione di placche costituite da una specie anomala della proteina beta-amiloide sulla membrana dei neuroni. Se presente in doppia copia – codificata cioè da entrambi gli alleli del gene corrispondente – la variante della proteina beta-amiloide mutata  scatena l`Alzheimer in forma grave, mentre se presente in singola copia si rivela protettiva. In che modo? L`azione della proteina beta-amiloide normale si lega a quella mutata e ne blocca l`attività, inibendo lo sviluppo della malattia. In questo modo il soggetto diventa “portatore” della malattia, senza svilupparla, con il risultato che il cervello funziona benissimo anche fino a tarda età.

La cura per caso – I ricercatori milanesi, partendo dal singolo caso, hanno invece scoperto che può anche accadere il contrario, e cioè che la proteina beta-amiloide mutata possa danneggiare il normale funzionamento di quella sana. Ed è proprio questo, quindi, il particolare caso del trentaseienne milanese. Come spiegano i ricercatori, proprio da questa scoperta è arrivata, un`altra scoperta, quella di una possibile cura, ottenuta in laboratorio quasi per caso: aggiungendo la proteina beta-amiloide mutata alla proteina normale che iniziava ad alterarsi, i ricercatori sono infatti riusciti ad arrestare il processo di degenerazione.

Mutazione genetica recessiva – Questa scoperta, commentano gli specialisti di ogni parte del mondo, modifica il modo di concepire le radici genetiche della malattia. Tutti i casi precedentemente identificati, infatti, presentavano mutazioni genetiche ereditarie di tipo “dominante”. Questo, invece, sarebbe il primo caso documentato di mutazione genetica “recessiva” in grado di sviluppare il morbo di Alzheimer.

Prospettive – Dal laboratorio, spiegano gli studiosi milanesi, si passerà presto allo studio della terapia sui modelli animali. L’ipotesi è quella di avviare lo sviluppo di farmaci e terapie contro l’Alzheimer basati sulla costruzione sintetica di una proteina amiloide in grado di arrestare il processo di degenerazione neuronale.

«Effetto espresso»: con quattro tazzine il cervello corre

Il pensiero di una tazzina di caffè fumante riesce spesso a “smuovere” dal letto anche chi ci resterebbe per ore e da oggi sappiamo che può produrre effetti positivi anche a lungo termine. È quanto emerge dalla ricerca pubblicata su Journal of Alzheimer`s Disease dai ricercatori dell’University of Kuopio in Finlandia, secondo cui, negli adulti, assumere da tre a cinque caffè al giorno allontana il rischio di demenza.

La ricerca, durata 21 anni, è stata condotta su 1409 finlandesi che nel 1998, alla fine dello studio, avevano un’età compresa tra i 65 e i 79. Gli studiosi hanno sottoposto i soggetti a diverse visite di controllo, durante le quali il loro stato di salute è stato associato al consumo di caffè, al loro stile di vita, a fattori socio-demografici, ad eventuali disturbi vascolari e sintomi depressivi. Al termine della ricerca, gli esperti hanno rilevato che i soggetti abituati a bere da tre a cinque tazzine di caffè al giorno, correvano un rischio inferiore del 65% di sviluppare patologie legate alla demenza – fra cui il morbo di Alzheimer – rispetto a chi ne assumeva poco o non ne prendeva affatto. Inoltre, secondo i ricercatori i bevitori di caffè correrebbero minori rischi di incorrere in diverse patologie, tra le quali il morbo di Parkinson, alcuni tumori e il diabete.

Gli studiosi non sanno indicare la causa precisa di questi risultati, le ipotesi sono diverse: per esempio, la bevanda riduce il rischio di diabete mellito che, a sua volta, è legato ad un alto pericolo di demenza. Inoltre la pianta del caffè contiene alcune sostanze chimiche, come l’acido clorogenico, che agiscono come antiossidanti e possono proteggere le cellule dai danni provocati dal tempo. Anche la caffeina potrebbe svolgere un ruolo positivo, in quanto blocca i recettori dell’adenosina, una sostanza che ha effetti depressivi sul sistema nervoso centrale.

Gli esperti ritengono dunque opportuno affrontare nuove ricerche sull’argomento, per comprenderne meglio i meccanismi, al fine di avviare una sperimentazione di nuove terapie in grado di prevenire il rischio di demenza.

Scoperto legame tra Alzheimer e virus herpes simplex

Il comune virus dell’herpes labiale potrebbe essere coinvolto nei meccanismi che sono in grado di provocare l’insorgenza del Morbo di Alzheimer. Questa conclusione è deducibile da uno studio scientifico svolto in Inghilterra alla Manchester University, da un gruppo di studiosi coordinati dalla dottoressa Ruth Itzhaki. I ricercatori hanno scoperto che esiste un legame tra il virus herpes simplex (HSV), che solitamente attacca le labbra, e l’accumularsi delle placche della proteina beta amiloide, tra le cause principali dell’Alzheimer, nel cervello. Questo vale in particolare per le persone anziane affette da questa grave demenza degenerativa: tali soggetti presentano infatti un sistema immunitario più fragile e indebolito, risultando quindi più facilmente attaccabili dai batteri e dai virus. Esaminando un campione rappresentativo di malati di Alzheimer, i ricercatori inglesi hanno potuto constatare che, all’interno del loro cervello, ben il 90% delle placche proteiche presentava frammenti del DNA virale dell’herpes simplex di tipo 1. In precedenza la dottoressa Itzhaki e colleghi avevano dimostrato che l’infezione virale, indotta sulle cellule nervose di topolini da laboratorio, conducevano all’accumulo di placche di proteina beta amiloide nel cervello dei roditori. Era già stato osservato che il virus dell’herpes simplex è presente nell’encefalo di molti individui anziani e che esiste uno specifico fattore genetico che predispone maggiormente all’insorgere del Morbo di Alzheimer rispetto al resto della popolazione. Notevole è stata la percentuale riscontrata di casi in cui il virus dell’herpes simplex resta dormiente senza manifestarsi anche per lunghi periodi di tempo: questo è accaduto al 20-40% delle persone infettate. I dati scientifici attualmente raccolti non consentono ancora di affermare chiaramente che l’Alzheimer viene causato dal virus dell’herpes simplex di tipo 1, tuttavia gli stessi ricercatori sono convinti che la loro scoperta potrebbe presto contribuire a sviluppare una cura efficace per la malattia di Alzheimer utilizzando i farmaci antivirali. In attesa di future conferme o smentite, lo studio scientifico inglese è comunque un ulteriore tassello di conoscenza che si aggiunge al puzzle di nozioni già a disposizione sull’Alzheimer.

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Una pillola alla nicotina per combattere l’Alzheimer

La nicotina fa bene alla mente. Mantiene svegli, migliora le capacità di concentrazione e aiuta la memoria. In poche parole, contrasta l’aggravarsi dell’Alzheimer e delle altre forme di demenza. Lo ha rilevato uno studio dei ricercatori del King’s College di Londra, che stanno mettendo a punto una pillola alla nicotina. I ricercatori puntano a ottenere un farmaco che contenga tutti i principi benefici del tabacco, eliminando invece quelli negativi responsabili di tumori, malattie cardiache e respiratorie. I primi esperimenti condotti sui topi hanno dimostrato che la nicotina interagisce con alcune sostanze del cervello, come la dopamina e la noradrenalina, sortendo effetti positivi nell’80% dei casi, nei quali viene rafforzata la “capacità a svolgere un compito con precisione”. Quando la cavia è distratta, però, la percentuale di risposte positive scende al 55%. In media, comunque, gli studi effettuati hanno rilevato che la nicotina aumenta del 5% il tasso di precisione nello svolgimento di un dato compito. Secondo quanto sostenuto dai ricercatori durante il Forum of European Neuroscience di Ginevra, la pillola non rappresenterebbe una cura definitiva contro la demenza, ma solo un modo per attenuarne gli effetti negativi.

 

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Staminali: un nuovo modo per «riprogrammarle»

staminaliTrovato un nuovo metodo per la “riprogrammazione” di cellule adulte in modo da renderle simili alle cellule staminali. La ricerca è stata condotta dall’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli, che ha individuato nella proteina Wnt – già nota per essere coinvolta in numerose fasi dello sviluppo dei vertebrati e degli invertebrati – l’elemento chiave per realizzare questa trasformazione.  Nel corso dello studio, pubblicato sulla rivista Cell Stem Cell, gli scienziati hanno utilizzato diversi tipi di cellule adulte, tra cui i fibroplasti, cellule del timo e precursori di cellule neuronali. Dopo essere state manipolate e fuse con cellule staminali embrionali in presenza della proteina Wnt, le cellule adulte hanno modificato le loro caratteristiche trasformandosi in cellule pluripotenti in grado di dare origine a cellule di tessuti diversi da quelli di partenza. “La vera novità – spiega Maria Pia Cosma, direttrice dell`Istituto Tigem – sta nella grande capacità della proteina Wnt di promuovere questa `riprogammazione`”. Attraverso la somministrazione di dosi precise della proteina per un tempo limitato, spiega la ricercatrice, un`alta percentuale di cellule adulte si è trasformata in cellule simil-staminali. Secondo il parere degli esperti dell`Istituto il nuovo metodo aprirebbe prospettive interessanti anche nella terapia di diverse patologie come il morbo di Alzheimer, il morbo di Parkinson e le cardiopatie, caratterizzate dalla degenerazione irreversibile di determinati tessuti.

 

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L’iperico forse blocca l’Alzheimer

L’iperico potrebbe riuscire a bloccare la formazione delle placche tipiche del morbo di Alzheimer nelle fasi precoci della malattia. La scoperta, pubblicata sulla rivista Febs Letters, e’ il risultato di una ricerca dell’Istituto di BioFisica del Cnr di Pisa. Finora l’iperico, prodotto officinale tratto da una pianta, e’ stato utilizzato contro la depressione e l’ansia, ma ora si e’ visto che riesce a bloccare la formazione delle placche che distruggono le cellule nervose.

 

 

 

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