Posts Tagged 'cervello'

La fine di un amore può danneggiare il cervello

Essere lasciati dal proprio partner è una brutta esperienza di vita. Sul Journal of Neurophysiology si legge di uno studio di Helen E. Fisher che spiega come la fine di un amore può agire sul cervello come una droga e dare dipendenza al pari di alcol, nicotina e cocaina. Lo studio è stato effettuato su alcuni studenti universitari uomini e donne, appena piantati in asso dal partner. La scansione con la risonanza magnetica funzionale ha rivelato che i “cuori spezzati” subiscono delle ferite nel cervello, corrispondenti ad alterazioni in meccanismi cerebrali legati alle aree del piacere e della ricompensa, le stesse implicate nella dipendenza da sostanze stupefacenti come la cocaina. Ai volontari, usciti da poche settimane da una relazione di due anni, sono state sottoposte foto dei vecchi amori, mentre eseguivano un compito al computer. Una tortura ben visibile grazie alle immagini radiografiche raccolte nella testa del rifiutato. “Abbiamo osservato un vero dolore fisico, che si manifesta nel tentativo di capire cosa è accaduto – spiega Fisher – e può ricominciare anche molto tempo dopo l’addio”. I ricercatori cercheranno di capire di più sui meccanismi interni alla materia grigia. L’abbandono genera, infatti, scariche di dopamina che “lavano” il cervello, innescando sentimenti di disperazione con comportamenti che possono andare dallo stalking a reazioni più gravi e patologiche, tali da sfociare in omicidi e suicidi.


La memoria delle donne è migliore

 

La memoria delle donne funziona meglio di quella degli uomini, è l’ultima conferma scientifica che viene niente di meno che dalla prestigiosa Università inglese di Cambridge. I ricercatori si sono presi la briga di effettuare dei test mnemonici a circa 4.500 persone di ambedue i sessi tra i 48 ed i 90 anni. Ebbene il risultato ha convalidato innumerevoli studi già fatti in passato: la mente femminile è un passo avanti, le donne sono più “sveglie”, veloci, pratiche, ricordano meglio, insomma: lo dice anche la scienza, il cervello femminile funziona meglio. E dal punto di vista della ricerca, la differenza rilevata è costante in tutte le età.

Con questo, non voglio dire che sono più intelligenti! Gli studi scientifici hanno già provato che esistono numerose differenze di genere e che le caratteristiche delle donne per ciò che riguarda il cervello, sono migliori. E’ solo che ricordarglielo ogni tanto fa bene alla salute!

Ma l’obiettivo dello studio è ben altro ovviamente: riguarda l’analisi delle capacità cognitive col passare degli anni, in ambedue i sessi. Si vuole capire quale può essere uno standard di memoria a 50 anni oppure a 90, per poi individuare sia nel genere maschile che in quello femminile, quando e come si manifestano dei deficit, mnemonici e cognitivi, che spesso nelle persone anziane tendono a confondersi.

Così, uno degli autori della ricerca ha spiegato che “utilizzando i dati ricavati da questo studio si potrà stabilire se la memoria di un soggetto ad una certa età è normale o può nascondere un campanello d’allarme per malattie come l’Alzheimer“.

Lo studioso ha anche sottolineato come sia la prima volta che vengono testate così tante persone, e si conta di procedere e di arrivare almeno fino a 10.000 volontari! Di mezzo c’è la genetica, la neurologia, la psicologia … ma sicuramente, anche l’allenamento: le donne sono o non sono più abituate dei maschi a pensare, fare, organizzare e ricordare?

Lo stress aumenta i neuroni

Lo stress sembra legato alla neurogenesi, ovvero alla produzione di neuroni, secondo una recente ricerca. Un gruppo di neurologi dell’Università del Texas ha pubblicato uno studio sulla rivista Pnas nel quale affermano che le persone più sensibili alle situazioni che sviluppano tensione emotiva produrrebbero anche più neuroni. Per dimostrare la loro tesi, i ricercatori hanno portato a termine una serie di esperimenti su alcuni topi da laboratorio, scoprendo che a causa delle esperienze stressanti che avevano inflitto alle cavie, alcuni ratti si erano mostrati più suscettibili di altri e avevano reagito moltiplicando la produzione di cellule, che si dimostravano in grado di sopravvivere più a lungo di quelle prodotte dagli altri topi. Entrambi i gruppi avevano mostrato la stessa produzione di nuove cellule subito dopo l’evento negativo a cui erano stati sottoposti, ma dopo alcune settimane quelli più suscettibili ne avevano prodotte molte di più. Intervenendo sulla neurogenesi dei topi più sensibili, ovvero riducendone la portata, i ricercatori hanno assistito a un atteggiamento più tranquillo ed equilibrato dei topi del primo gruppo. Come ha dichiarato Amelia Eisch, una delle autrici della ricerca, “questo lavoro mostra che c’è un periodo di tempo durante il quale potrebbe essere possibile alterare la memoria riguardo una particolare situazione manipolando le cellule generate nel cervello. Questo ci può aiutare intanto a capire perché le persone reagiscono in maniera così diversa tra loro allo stress”.

Fonte: ITALIAsalute.it

I siti cerebrali dell’intelligenza emotiva

Dallo studio delle ferite alla testa subite dai veterani della guerra in Vietnam è stato possibile individuare le parti del cervello fondamentali per i due tipi di intelligenza emotiva. A seconda del posto dove è stata riportata la ferita, i veterani studiati erano privi o di intelligenza emotiva ‘esperenziale’ (la capacità di giudicare le emozioni delle altre persone) o di intelligenza emotiva ‘strategica’ (la capacità di pianificare risposte socialmente adeguate alle situazioni). A condurre lo studio è stato un gruppo di ricercatori del National Institute of Neurological Disorders and Stroke di Bethesda, nel Maryland. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. Per arrivare alle loro conclusioni sono stati condotti dei test standard per misurare l’intelligenza emotiva su 38 veterani feriti e su 29 veterani sani, usati come gruppo di controllo. Ebbene, dai risultati è emerso che i 17 veterani che hanno riportato lesioni alla corteccia prefrontale dorsolaterale effettuavano prestazioni peggiori nei compiti che mettevano a prova l’intelligenza emotiva ‘esperenziale’, mentre i risultati sono stati migliori nei test sull’intelligenza emotiva ‘strategica’. Risultati opposti invece sono stati registrati negli altri 21 veterani che avevano riportato danni alla corteccia prefrontale ventromediale. I risultati di questo studio avrebbero così permesso agli scienziati di individuare le parti dl cervello responsabili dei due tipi di intelligenza emotiva.

Fonte AGIsalute

Attacchi di panico: ecco perché si fatica a respirare

Le parti del cervello che registrano paura e soffocamento sono le stesse: per questo motivo quando si ha un attacco di panico non si riesce più a respirare in maniera normale: a scoprirlo è uno studio condotto dai ricercatori della University of Michigan (Stati Uniti) e pubblicato sulla rivista Cell.

Lo studio suggerisce che la specie umana si è evoluta anche grazie al collegamento tra il soffocamento e la paura: “Gli organismi che devono, per sopravvivere, respirare ossigeno, sono costantemente sotto la minaccia di soffocamento, nel caso in cui l`aria iniziasse a mancare – spiega Stephen Marin, che ha partecipato alla ricerca -. Potremmo quindi sostenere che la minaccia di soffocamento ha avuto un`influenza primaria sulla strutturazione dei sistemi di difesa del cervello: a livello di evoluzione, infatti, il soffocamento è l`ultimo segnale di paura che segnala la morte imminente della preda a causa del predatore”. I ricercatori spiegano che i risultati di questo studio potrebbero portare a farmaci che prendono di mira l`area del cervello che causa il soffocamento per cercare una cura agli attacchi di panico.


Fonte SALUTE24.it

Nuova ricerca sull’ischemia cerebrale

Un test predice la possibilità di recupero motorio in caso di ischemia cerebrale.

ictusAi danni provocati da un’ischemia cerebrale potrebbe rispondere ora un test che dovrebbe consentire di valutare gli effetti dell’ictus e quantificare le possibilità di miglioramento di ogni organismo.
L’ictus compromette frequentemente la funzione motoria di una metà del corpo. In alcuni pazienti nel corso dei mesi successivi all’evento cerebrale si verifica un progressivo recupero motorio, che può essere anche completo. Altri malati con infarti cerebrali di paragonabile entità non migliorano nonostante la riabilitazione. Da cosa dipende il recupero? È possibile prevederlo fin dai primi giorni dopo l’esordio della malattia?
In uno studio, pubblicato sulla rivista internazionale “Cerebral Cortex”, un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma, guidati dal prof. Vincenzo Di Lazzaro, ha messo a punto un test in grado di predire precocemente il recupero della funzione motoria dopo ischemia cerebrale, misurando la capacità del cervello di modificarsi in risposta a stimoli esterni.
Nello studio, presentato a Torino nel corso del IX Congresso nazionale della Società italiana per lo studio dello Stroke (SISS), pazienti affetti da ischemia cerebrale sono stati sottoposti a un test neurofisiologico in grado di valutare la plasticità del cervello, una caratteristica alla base dei fenomeni di memoria, apprendimento e di recupero dopo una lesione cerebrale. Si tratta di un test indolore e non invasivo che si esegue valutando le modificazioni di eccitabilità della corteccia cerebrale motoria indotte da una stimolazione magnetica ripetitiva ad alta frequenza della stessa area cerebrale. Tali modificazioni di eccitabilità rappresentano una misura della plasticità del cervello.
I ricercatori hanno applicato questo test a 17 pazienti affetti da ischemia cerebrale nei primissimi giorni dopo la comparsa dei sintomi. I risultati dello studio hanno dimostrato che, quanto maggiore è l’incremento di eccitabilità indotto dalla stimolazione sull’emisfero cerebrale colpito dall’ischemia, tanto maggiore sarà il recupero motorio, misurato con una scala di invalidità, a sei mesi di distanza dall’ictus. Pertanto le modificazioni di eccitabilità osservate in fase acuta sembrano rappresentare un indice affidabile del potenziale di recupero del cervello colpito da ischemia cerebrale.
“Le informazioni fornite dal nostro studio – commenta il neurologo della Cattolica Di Lazzaro – hanno non soltanto una rilevanza prognostica in fase precoce, ma possono rappresentare uno strumento utile per misurare gli effetti di nuove strategie di trattamento farmacologico-riabilitativo per l’ictus”. Secondo i ricercatori, infatti, “tale test neurofisiologico potrebbe essere utile per valutare l’impatto di trattamenti farmacologici o riabilitativi sulla plasticità cerebrale e pertanto sui meccanismi che portano al recupero. Inoltre, la conoscenza di tali meccanismi apre interessanti prospettive terapeutiche basate sulle stesse tecniche di stimolazione cerebrale transcranica, utilizzate in associazione con la riabilitazione, con l’obiettivo di incrementare il recupero della funzione lesa”.

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S’IMPARA PIÙ DAI SUCCESSI CHE DAGLI ERRORI

Non è sempre vero che sbagliando s’impara: fare la cosa giusta con successo aiuta il cervello a immagazzinare informazioni importanti. I ricercatori americani del Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno scoperto che il cervello umano impara più dai successi che dai fallimenti e questo potrebbe spiegare perché spesso le persone sono portate a ripetere gli stessi errori.
Gli studiosi statunitensi, guidati dal neurologo Earl Miller, hanno pubblicato la loro scoperta sulla rivista “Neuron” e sono riusciti a “fotografare” per la prima volta il processo dell’apprendimento.
Le cellule cerebrali reagiscono in tempo reale agli stimoli esterni, modificando il loro modo di comportarsi a seconda che l’azione compiuta dal soggetta sia giusta o sbagliata: esse sono capaci di distinguere e registrare i comportamenti recenti corretti da quelli sbagliati e reagiscono in maniera differente a essi, come spiega il dott. Miller.
L’esperienza immagazzinata nel cervello costituisce dunque una preziosa riserva di informazioni, da utilizzare quando servono: tuttavia un errore fa reagire il cervello molto di meno rispetto al compimento di un’azione giusta.
Il risultato di questo è che è possibile modificare e migliorare il proprio comportamento più con ciò che abbiamo imparato da quel che abbiamo fatto bene che da quello che abbiamo appreso sbagliando.
Gli studiosi, per giungere a queste conclusioni, hanno condotto dei test sulle scimmie grazie a dei giochi per computer: se i primati sceglievano la risposta giusta, guadagnavano una ricompensa.
Il modello di apprendimento elaborato dagli scienziati americani prevedeva, così, un modello di apprendimento basato su una risposta ravvicinata allo stimolo ricevuto.
Il test consisteva in questo: se sullo schermo del pc appariva un uomo che fumava la pipa, le scimmie dovevano voltarsi a sinistra, mentre, se compariva l’immagine di un semaforo, dovevano girarsi a destra. La procedura veniva ripetuta diverse volte per stimolare il processo d’apprendimento della risposta corretta.
Mentre i primati compivano questa prova basata sullo schema “trial & error” (prova ed errore), gli scienziati misuravano la loro attività cerebrale nelle aree della corteccia prefrontale (che armonizza pensieri e azioni) e nell’area dei gangli basali (che controllano i movimenti). I dottori hanno così potuto notare una maggiore attivazione cerebrale in caso di risposta giusta (cinque secondi di attivazione neuronale) rispetto a una risposta sbagliata (solo un secondo di attivazione neuronale). Facendo la giusta scelta, l’informazione corretta veniva impressa più profondamente e più a lungo nella memoria degli animali che così, alle domande e alle prove successive, riuscivano più facilmente a superare il test.
La modificazione strutturale cerebrale riscontrata nel cervello delle scimmie si poteva osservare in seguito a una risposta corretta, ma non dopo una risposta errata: così gli individui che sbagliavano tendevano a ripetere il loro errore, mentre quelli che “azzeccavano” l’idonea risposta allo stimolo erano più veloci alle prove successive a fare di nuovo bene.
Per Miller “la risposta con la più alta frequenza cerebrale anticipava una nuova risposta corretta. Questo spiega il motivo per cui a livello di sistema neurale si apprende più dai successi che dai fallimenti”.
Gli studiosi americani ritengono di aver apportato, con il loro lavoro, un prezioso contributo d’approfondimento sulla plasticità cerebrale, cioè sulla capacità del cervello di modificare la propria struttura e il proprio funzionamento in base alle esperienze passate. Quest’indagine potrebbe, secondo Miller e colleghi, far comprendere meglio i meccanismi dell’apprendimento e aiutare a risolvere i problemi legati a esso.
Uno studio scientifico simile a quello del MIT era già stato svolto dalla dott.ssa Evelin Crone, dell’Università di Leida, in Olanda, e pubblicato sul “Journal of Neuroscience”.
La scienziata aveva testato i processi di apprendimento in differenti fasce d’età: nei bambini di 8-9 anni funziona molto bene il processo d’apprendimento basato sui successi; nei piccoli di 12 anni anche gli sbagli incidono alcune informazioni preziose nella memoria; negli adulti le differenze tra ciò che si impara dai successi e ciò che si apprende dai fallimenti si assottigliano sempre di più, fino a far concludere agli scienziati che, effettivamente, gli esseri umani adulti sono in grado di imparare allo stesso modo dalle loro azioni giuste e da quelle sbagliate.
Dunque sbagliando…ancora s’impara!! 

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“Crackato” il codice numerico del cervello

Osservando e analizzando gli schemi di attività cerebrale è possibile capire quale numero abbia appena osservato una persona: lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell’INSERM, che firma un articolo online su “Current Biology“.

codice numericoQuesti risultati confermano che i numeri sono codificati nel cervello attraverso dettagliati e specifici schemi di attività e aprono le porte a una più sofisticata esplorazione delle capacità numeriche umane di livello superiore. Sebbene neuroni “sintonizzati” sui numeri siano stati individuati nelle scimmie, nell’uomo finora non si era andati oltre l’individuazione di particolari aree cerebrali. “Non era affatto sicuro che con le tecniche di visualizzazione funzionale fosse possibile rintracciarli”, ha detto Evelyn Eger, che ha diretto lo studio. “Nelle scimmie i neuroni che ‘prediligono’ una certa numerosità o un’altra sono fortemente intrecciati fra loro e con altri che rispondono ad altre cose, e sembrava improbabile che attraverso una risonanza magnetica funzionale con una risoluzione di 1,5 millimetri, in cui un voxel contiene alcune migliaia di neuroni, si potesse riuscire a rilevare differenze negli schemi di attività relativi a singoli numeri. Il fatto che abbia funzionato significa che con tutta probabilità nell’uomo esista per singoli numeri un substrato di preferenze in qualche modo più strutturato e complesso, che andrà rivelato con metodi neurofisiologici.”

Nello studio i ricercatori hanno mostrato ai loro soggetti di studio simboli numerici o gruppi di punti mentre erano sottoposti a fMRI, trattando poi con l’analisi multivariata i dati ottenuti per identificare un modo di decodificare le tracce dei numeri o del numero di punti che erano stati osservati. Per quanto gli schemi cerebrali corrispondenti ai simboli numerici differissero in una certa misura da quelli rilevabili per lo stesso numero di oggetti, la numerosità dei gruppi di punti poteva essere prevista con elevata probabilità a partire dagli schemi di attivazione cerebrale evocati dalle cifre. Almeno per piccoli gruppi di punti, i ricercatori hanno inoltre trovato che questi schemi variano in modo graduale, e che riflettono la natura ordinata dei numeri, permettendo così di concludere che, per esempio (lo schema per il) 6 è compreso fra (quello per il) 5 e (quello per il) 7. Nel caso delle cifre, i ricercatori non sono stati in grado di rilevare analoghi cambiamenti graduali, o per la risoluzione troppo bassa delle apparecchiature, oppure perché le cifre sono codificate come entità più precise e distinte. “Con questi codici siamo soltanto all’inizio dell’individuazione dei blocchi costitutivi più fondamentali su cui probabilmente si fonda la matematica simbolica”, ha osservato la Eger. “Non abbiamo ancora una chiara idea del modo in cui queste rappresentazioni numeriche interagiscano e vengano combinate nelle operazioni matematiche, ma il fatto che possiamo identificarle, ci fa sperare che arriveremo a stabilire dei paradimi che ci consentiranno di farlo”.

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