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Zona Franca: Betula Alba

GALENOsalute avvalendosi della collaborazione di Franca Aleo (titolare di Herbora – Marsala) presenta la rubrica settimanale Zona Franca: “l’informazione diventa benessere”, dove fitoterapia ed oligoelementi vengono proposti come base di cure alternative e complementari. 

Questa settimana parliamo di “Betula Alba”. 

Betula alba utile nella ritenzione idrica, nella cellulite, nei disturbi renali e nei dolori articolari, nei reumatismi e nell’artrosi, ipertensione arteriosa ed iperuricemia. 

BETULLA | famiglia delle Betulacee. Originaria dell’Europa centrale, del Canada, dell’Asia, la corteccia è di colore bianco, era chiamata ” Albero della saggezza”  perchè venivano impiegati i giovami rami a mo di verghe per stimolare la didattica degli allievi. Si usano le foglie, la corteccia, i rami giovani e le gemme. E’ utile per la ritenzione idrica i calcoli delle vie urinarie, la ipertensione, la cellulite, è una pianta diuretica e depurativa, utile anche per i disturbi renali, la litiasi renale, la renella, i reumatismi, la gotta, la cellulite Per uso esterno si usa per i capelli grassi, ha anche proprietà febbrifughe, usata per le malattie della pelle, negli edemi, per l’obesità, per l’uricemia alta, per il colesterolo alto, per la azotemia alta, per la albumina alta, per i parassiti intestinali, azione cicatrizzante e sudoripara. E’ un aiuto per la libido ridotta, è un rimedio prezioso nelle affezioni della vescica, è essenzialmente immunostimolante, drenante, rimineralizzante, tonico, in alcuni casi stimola la attività sessuale, aiuta anche nei casi di impotenza e di frigidità, specie la scorza delle radici.

Le foglie contengono flavonoidi, olio essenziale, ossidi sesquitepenici, tannini (leucoantocianidine), Vitamina C, acido clorogenico e caffeico, resine, alcoli triperpenici (derivati del lupano, lupeolo, betulinolo (alcol triperpenico, responsabile della pigmentazione bianca tipica della scorza di betulla), acido betulinico, dammarano, forse contiene anche saponine). La corteccia contiene triterpeni e loro saponine, betulina, canfora di betulla.

PRINCIPI ATTIVI | Olio essenziale, tannino, catechico, saponine, vitamina C, betulina, flavonide aglicone, miricetina, acido nicotinico, iperoside, ossidi sesquiterpenici, leucoantocianidine, acido clorogenico e caffeico, resine, alcoli triterpenici, derivati del lupano, lupeolo, betulinolo, acido betulinico e dammarano, salicilato, glucosidi.

La foglia, ha proprietà diaforetiche e diuretiche (favorite dalle saponine e soprattutto dai glucosidi flavonici). La diuresi che si ottiene è caratterizzata da un aumento di eliminazione dell’acqua e non dei sali, per quetso motivo sotto controllo medico potrebbe essere utile negli edemi cardio-renali anche se Commissioni Mediche ne sconsigliano l’uso in questi casi. L’olio essenziale di Betulla dovrebbe rafforzare l’attività diuretica, ma tenere presente che l’olio essenziale va somministrato solo dietro consiglio medico.Le foglie sono di aiuto in presenza di reumatismi, gotta, litiasi renale e nella prevenzione della formazione di renella, è un attima pianta per il “lavaggio” nelle affezioni delle vie urinarie. Utile nella cellulite, in quanto   aiuta la eliminazione e la scomparsa dei noduli fibroconnettivali, in quanto esercita una azione nella eliminazione dell’acido urico e del colesterolo. Esternamente le foglie di Betulla sono utili per farne impacchi contro la caduta dei capelli (come coadiuvante insieme ad altre piante) e per le afte. Si possono anche fare dei pediluvi contro il sudore dei piedi. L’estratto fluido e acquoso ottenuto dalle foglie sembra abbia una lieve attività antibiotica

Le gemme di Betulla hanno una notevole attività coleretica. La corteccia ed il legno di Betulla per distillazione secca danno una sorta di catrame che può essere utile nelle affezioni cutanee. L’olio essenziale, ottenuto dal catrame di Betulla in pomata si utilizza per i reumatismi o in prodotti per il massaggio sportivo. Il carbone di Betulla, finemente polverizzato ha una azione assorbente ed è utile nelle affezioni gastrointestinali accompagnate da meteorismo. La linfa di Betulla contiene due eterosidi, i quali liberano per via enzimatica, salicilato di metile ad attività analgesica, antinfiammatoria e diuretica, è utile per   l’iper-uricemia, in quanto la sua assunzione regolare per 2-3 mesila riduce del 20-30%., ottenendo una diminuzione del rischio  non solo vascolare, ma anche articolare. Sempre per la sua attività diuretica, può essere utile  nella litiasi urinaria. La linfa di betulla viene raccolta seguendo una tecnica particolare, all’inizo del mese di marzo, si praticano alcuni fori sulla corteccia esposta a sud, profondi da 2 a 5 cm leggermente obliqui verso l’alto, nei quali si intoduce un tubicino da cui defluisce il liquido in un recipiente posto a terra, un  tronco di 50 cm di diametro fornisce in 4 giorni una media di 3-4 litri di linfa, la raccolta è più proficua quando le betulle sono di media grandezza. Le foglie si preparano in infuso (mettere in acqua bollente, lasciare in infusione per 10 minuti,filtrare e bere). In commercio si trovano,  la polvere ridotta in compresse, gli estratti fluidi, la tintura madre ricavata dalla corteccia dei giovani rami freschi.

CONTROINDICAZIONI | alle dosi consigliate è una pianta sicura. Non usare in gravidanza e allattamento, cautela negli ipotesi.

 

Bibliografia:

Enrica Campanini ” Dizionario di fitoterapia e piante medicinali” Ed. Tecniche Nuove

A. Bruni – M. Nicoletti ” Dizionario ragionato di Erboristeria e di Fitoterapia” Ed.Piccin

Fonte erboristeria ed altro.com

L’ipertensione primitiva in età pediatrica

L’ipertensione arteriosa è il principale fattore di rischio cardiovascolare nell’adulto. Fino a non molti anni fa nel bambino l’ipertensione era considerata secondaria ad altre patologie, per lo più di origine renale, vascolare o endocrinologica. Recentemente è stata posta maggiore attenzione alla misurazione della pressione arteriosa in età pediatrica e questo ha permesso di evidenziare una prevalenza non trascurabile di soggetti con valori di pressione elevata di origine primitiva. Anche se è possibile che bambini di peso normale abbiano alti valori pressori, sono principalmente i soggetti in eccesso ponderale a presentare un riscontro di ipertensione primitiva o, meglio, secondaria all’eccesso di peso.

Nel bambino la pressione arteriosa si modifica con l’età e differisce nei due sessi, non esistono quindi valori fissi di cut-off per distinguere normalità e patologia; l’altezza, inoltre è una variabile indipendentemente correlata ai valori pressori. Ne deriva che per valutare correttamente i valori pressori di un bambino dobbiamo conoscere il sesso, l’età e l’altezza del soggetto. Poiché la pressione arteriosa è un parametro che varia con l’esercizio fisico e con lo stato emotivo, è importante rilevarla più volte (almeno tre misurazioni a distanza di tempo) e per ottenere un dato affidabile è consigliabile utilizzare il valore medio. I criteri proposti dal Task Force Report on High Blood Pressure in Children 2004 per l’interpretazione dei valori pressori sono riportati nella tabella (i valori dei percentili sono relativi all’età e all’altezza del bambino): 
 

Tabella. Criteri di interpretazione dei valori pressori nei bambini 


Per la misurazione è fondamentale utilizzare dei bracciali adeguati alla grandezza del braccio del bambino, poiché i bracciali troppo piccoli sovrastimano i valori pressori e quelli troppo grandi li sottostimano. Il monitoraggio della pressione arteriosa delle 24 ore, che nell’adulto è ben standardizzato e ampiamente usato per confermare e guidare la diagnosi di ipertensione, nel bambino non è utilizzabile su larga scala in quanto i valori di riferimento disponibili derivano da un campione numericamente limitato. Il monitoraggio delle 24 ore può essere eseguito, ma solo per integrare e non per sostituire ai fini diagnostici le misurazioni ambulatoriali e deve essere interpretato presso centri con esperienza riconosciuta.
Come nell’adulto, anche nel bambino l’ipertensione si associa a diversi fattori di rischio cardiovascolare. I bambini ipertesi hanno un aumento dei valori di insulinemia, glicemia, HOMA index (HOmeostasis Model Assessment, indice di insulinoresistenza), trigliceridi, colesterolo LDL e una diminuzione di colesterolo HDL rispetto ai soggetti normotesi. Questo fenomeno può essere spiegato con la maggiore prevalenza di sovrappeso e obesità nei soggetti ipertesi rispetto ai coetanei normopeso e potrebbe essere dovuto, almeno in parte, all’aumentata resistenza insulinica propria dell’eccesso ponderale. In pratica, molti bambini con pressione arteriosa elevata potrebbero essere classificati come portatori di sindrome metabolica; è pertanto opportuno che vengano ricercate le alterazioni proprie di questa condizione nei bambini ipertesi, soprattutto se in eccesso di peso.

Come nell’adulto iperteso, anche nel bambino con pressione elevata possono essere presenti iniziali danni d’organo. In età pediatrica l’ipertensione si associa a un ispessimento delle pareti cardiache e a un aumento dell’indice di massa ventricolare, in particolare nei soggetti in cui siano contemporaneamente presenti elevati valori pressori ed eccesso ponderale. Lo spessore intima-media carotideo appare aumentato nei bambini ipertesi. Inoltre, soggetti obesi con elevati valori pressori presentano più frequentemente fenomeni di sleep-apnea rispetto a bambini in marcato sovrappeso, ma normotesi. Recentemente, in una popolazione ipertesa in età pediatrica, è stata dimostrata un’alterazione della funzione barocettiva, indicativa di un’iniziale alterazione neurovegetativa. 

La contemporanea presenza di altri fattori di rischio cardiovascolare o di iniziale danno d’organo impone una particolare attenzione nel trattamento che, pur mirato a ciascuna specifica alterazione, trova il suo minimo comune denominatore nella diminuzione dell’eccesso ponderale. Solo in casi del tutto eccezionali bisogna fare ricorso a farmaci antipertensivi, nella quasi totalità dei casi il trattamento è basato su cambiamenti dello stile di vita e dell’alimentazione. Tuttavia è importante che questi bambini vengano trattati, anche quando l’aumento della pressione supera solo di poco i valori limite, perché è noto che lo stato ipertensivo tende a mantenersi fino all’età adulta: vi è pertanto un lunghissimo periodo di tempo durante il quale si può instaurare un danno d’organo.  

Il trattamento non farmacologico prevede:

● riduzione di peso quando sia presente sovrappeso o obesità

● aumento dell’attività fisica, sia sotto forma di sport che di gioco di movimento

● riduzione delle attività sedentarie (televisione, videogiochi ecc.) a meno di 2 ore al giorno

● modificazioni dell’alimentazione che consistono in:

    – riduzione calorica se è presente sovrappeso o obesità,

   – dieta bilanciata sia dal punto di vista dei nutrienti che della distribuzione nell’arco della giornata,

    – consumo regolare di frutta e verdura,

    – riduzione dell’assunzione di alimenti ad alto indice glicemico,

   – riduzione del contenuto di sodio (1,2 g/die per bambini da 4 a 8 anni; 1,5 g/die se > 8 anni). 
 

In conclusione: l’ipertensione primitiva in età pediatrica è un reale problema della nostra società e i bambini che vengono riconosciuti ipertesi vanno controllati e seguiti nel tempo, per mettere in atto cambiamenti dello stile di vita e dell’alimentazione, indispensabili per assicurare loro un buono stato di salute in età adulta.  

Fonte Medsolve – Autore Dott.ssa Simona Genovesi 

Bibliografia

National High Blood Pressure Education Program Working Group on High Blood Pressure in Children and Adolescents. The Fourth Report on the Diagnosis, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure in Children and Adolescents. Pediatrics 2004; 114: 555-76

Sorof JM, Lai D, Turner J, et al. Overweight, ethnicity, and the prevalence of hypertension in school-aged children. Pediatrics 2004; 113: 475-82

Sorof J, Daniles S. Obesity hypertension in children. A problem of epidemic proportion. Hypertension 2002; 40: 441-47

Chen X, Wang Y. Tracking of blood pressure from childood to adulthood: a systemtic review and meta-regression analysis. Circulation 2008; 117(25): 3171-80

Daniels SR, Loggie JMH, Khoury P, Kimball TR. Left ventricular geometry and severe left ventricular hypertrophy in children and adolescents with essential hypertension. Circulation 1998; 97: 1907-11

Sorof JM, Alexandrov AV, Cardwell G, Portman RJ. Carotid artery intimal-medial thickness and left ventricular hypertrophy in children with elevated blood pressure. Pediatrics 2003; 11: 61-66

Genovesi S, Pieruzzi F, Giussani M, et al. Analysis of heart period and arterial pressure variability in childhood hypertension. Hypertension 2008; 51: 1289-94

Srinivasan SR, Myers L, Berenson GS. Changes in metabolic syndrome variables since childhood in prehypertensive and hypertensive subjects: the Bogalusa Heart Study. Hypertension 2006; 48(1): 33-9

Feng JHe, Graham A, Mac Gregor. Importance of salt in determining blood pressure in children: meta-analysis of controlled trials. Hypertension 2006; 48: 861-9  

Scoperto il gene del cancro al surrene!

Una ricerca effettuata in campo internazionale ha identificato il gene responsabile del cancro del surrene. Il gene, chiamato ‘Tmem 127′ e’ descritto sulla rivista Nature Genetics e potrebbe essere responsabile anche di altre forme di tumore. E’ stato isolato e caratterizzato a Padova, dai ricercatori dell’Istituto Oncologico Veneto (IOV) in collaborazione con studiosi texani. Il gene e’ responsabile di una forma di tumore del surrene che puo’ causare crisi ipertensive, il feocromocitoma, un tumore raro ritenuto interessante perche’ puo’ essere geneticamente trasmesso e associato ad altri tumori. La scoperta è stata illustrata da Giuseppe Opocher, endocrinologo dell’universita’ di Padova e responsabile dell’Unita’ Tumori Ereditari dell’Istituto Oncologico Veneto. La ricerca e’ stata condotta in collaborazione con Patricia Dahia, del Cancer Therapy and Research Center di San Antonio.

Fonte Sanitànews

Per approfondimenti: Nature Genetics

Nel sonno il segreto per dimagrire!!

Se pensate al letto come sinonimo di pigrizia e quindi ostacolo per il dimagrimento, sbagliate di grosso. È ormai una realtà scientifica il rapporto fra metabolismo e ciclo naturale del sonno e della veglia, più precisamente fra gli ormoni e le fasi cerebrali. Una quantità di ricerche hanno stabilito una relazione tra la quantità e la qualità del sonno da una parte, e l’indice di massa corporea dall’altra. Sulla rivista specializzata Obesity, la ricercatrice Deanna Arble, che lavora per il Centro del sonno e della biologia circadiana della Northwestern University in Illinois, ha pubblicato uno studio che mette in luce dati interessanti. Analizzando topi da laboratorio, la dott.ssa Arble ha scoperto che una dieta ricca di grassi aumenta il peso in percentuali diverse a seconda dell’ora in cui vengono somministrati gli alimenti. Se durante gli orari diurni il peso sale del 20 per cento, gli stessi alimenti proposti ai topi durante le ore notturne produce un aumento di peso pari quasi al 50 per cento. Altri studi hanno ricavato dati coerenti con lo studio della Arble, anche se relativi alla possibilità di sviluppare il diabete. Secondo una ricerca dell’Università di Chicago, le persone sane costrette a un ritmo di vita che prevede soltanto cinque ore di sonno al giorno perdono progressivamente la sensibilità al glucosio, il che le predispone appunto al diabete, oltre che all’obesità. Un’altra ricerca, stavolta canadese, ha individuato nel cattivo funzionamento della melatonina, l’ormone che regola il rapporto fra le fasi di sonno e di veglia, un aumento del 20 per cento del rischio di insorgenza della malattia. Secondo la dott.ssa Arble, quindi, le prove di una profonda influenza dei ritmi circadiani – ovvero il ciclo dei processi fisiologici di un essere vivente nell’arco di 24 ore – sul metabolismo umano sono indubitabili: “tutti i principali elementi chiamati in causa nella regolazione del peso e dell’appetito sono influenzati dall’alternanza di sonno e veglia e hanno un andamento fluttuante nell’arco della giornata: il metabolismo dell’insulina, la funzionalità della leptina (l’ormone della sazietà), la regolazione della temperatura e molto altro. E questo significa che l’obesità può essere vista anche come una patologia derivante dalla perdita di armonia in questo delicato equilibrio”. A questo punto, quali potrebbero essere le strategie per riequilibrare questo rapporto? Al momento, non esistono farmaci in grado di regolare meccanismi tanto complessi e i medici suggeriscono pertanto di mettere in atto terapie comportamentali mirate, in poche parole di riprendere le vecchie e sane abitudini di una volta. La rivoluzione del tempo quotidiano indotta dalle nuove esigenze economiche che si sono presentate negli ultimi cento anni ha costretto il nostro organismo a far fronte a situazioni inedite. La mancanza del giusto riposo e la diminuzione complessiva delle ore di sonno sono andate di pari passo con l’aumento dei fenomeni di ipertensione, diabete, obesità, problemi cardiaci. Costretti a ritmi esasperati, la qualità della nostra vita peggiora e il nostro organismo alla fine presenta il proprio conto. Se si vuole veramente dimagrire, quindi, occorrerà che ognuno di noi operi una piccola rivoluzione nei comportamenti.

Fonte ITALIAsalute.it

Pressione alta: dalla Gran Bretagna l’alternativa chirurgica

Stress da strenne natalizie, grandi abbuffate a tavola e incontri ravvicinati con parenti irritanti. Risultato, la pressione sale alle stelle. La soluzione ad un cuore che batte all’impazzata potrebbe arrivare da un intervento chirurgico innovativo sperimentato in Gran Bretagna: un “filo anti-ictus” interrompe i segnali nervosi che in alcune persone causano l’ipertensione.

Il trattamento, chiamato ablazione renale del nervo simpatico, consiste in micro-bruciature praticate nei nervi che stimolano il cervello alzando la pressione sanguigna. Un’alternativa per quei pazienti sui quali non hanno effetto le pillole per la pressione alta o sono intolleranti ai medicinali, spiegano al Daily Telegraph i cardiologi del London Chest Hospital dove sono stati praticati i primi interventi.

Il primo a provare la cura è stato un uomo di 68, Anthony Henry, diabetico e cardiopatico. L’intervento dura circa un’ora, in anestesia locale. La pressione diminuisce nel giro di due settimane, e gli effetti anti-ipertensivi si stabilizzano entro tre mesi. Secondo Martin Rothman, il cardiologo che ha eseguito l’operazione, con questa metodica “si può ridurre la mortalità per ictus del 50%”.

“L’intervento offre un’alternativa alla dipendenza dai farmaci”, assicura al quotidiano britannico David Collier, ricercatore presso l’Unità di Ricerca Biomedica della Queen Mary University di Londra, che però avverte: “Non è il rimedio per una persona pigra alla dieta e all’esercizio fisico”.

Fonte SALUTE24.it 

Troppo sale fa venire infarti e ictus: un eccesso di 5 grammi al giorno aumenta il rischio di circa il 20 per cento

«Togliete almeno la saliera dalla tavola». È l’accorata richiesta di Pasquale Strazzullo, del Centro per l’Ipertensione al Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Federico II di Napoli. Strazzullo parla a ragion veduta: ha appena dato alle stampe, sul British Medical Journal un poderoso studio che ha dimostrato in maniera inequivocabile un legame consistente fra il consumo di sale e malattie cardiovascolari come ictus e infarti.

REVISIONE – L’esperto napoletano, assieme a colleghi del Centro Collaborativo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dell’Università inglese di Warwick, ha passato al setaccio 13 studi che in passato hanno messo in relazione il consumo di sale con il rischio di malattie cardiovascolari, mettendo sotto esame un totale di oltre 170 mila persone. Verdetto senza appello: 5 grammi di troppo rispetto al consumo quotidiano raccomandato dall’OMS (pari a 5 grammi) aumentano del 23 per cento il pericolo di ictus, del 17 per cento la probabilità di infarto. «Per di più i dati arrivano da ricerche in cui spesso l’introito di sale è stato valutato attraverso questionari alimentari, cioè con un metodo non troppo preciso – fa notare Strazzullo –. La statistica ci insegna che a una scarsa accuratezza nella raccolta dati si associa una minor capacità di dimostrare l’effettiva esistenza di una correlazione. Noi l’associazione l’abbiamo vista eccome, nonostante le imprecisioni: significa che molto probabilmente l’effetto reale è ancora più marcato».

DIMEZZARE IL SALE – Nel mondo occidentale, dice ancora l’esperto, in media ingoiamo 10 o più grammi di sale al giorno: visti gli effetti, bisognerebbe almeno dimezzarlo. Ma come? Oltre al trucco della saliera, Strazzullo suggerisce: «A livello del singolo è bene usare la minor quantità di sale possibile durante la preparazione dei cibi: meno sale nell’acqua della pasta, nell’insalata, sulla carne e così via. Consiglio di farlo con gradualità, in maniera da abituare pian piano il gusto». Poi però c’è il sale “nascosto” nei cibi che compriamo: due terzi di quello che introduciamo arriva da lì. «Quando facciamo la spesa sarebbe opportuno far caso ai contenuti di sale dei prodotti che acquistiamo: se ne trova anche nei dolci, nei cereali, nei formaggi, nelle carni preparate, negli insaccati – consiglia ancora Strazzullo –. Purtroppo non sempre viene segnalato nelle etichette nutrizionali, ma si è aperta una fase di collaborazione e negoziazione fra le autorità sanitarie del Paese e le aziende produttrici per fare maggiore chiarezza e anche per arrivare a una riduzione dell’uso del sale nella preparazione dei cibi industriali: ad esempio, si sta discutendo con i panificatori per ottenere un taglio del sale nel pane, alimento fondamentale e anche simbolico nell’alimentazione italiana. Se non si arriverà ad accordi positivi, credo che bisognerebbe intervenire per legge per ridurre le quantità di sale permesso negli alimenti: gli effetti sulla salute sono troppo evidenti per ignorarli».

PAZIENTI – Anche perché c’è un piccolo dettaglio che fa riflettere: le persone coinvolte nelle ricerche appena analizzate erano sane. «Chi già ha un fattore di rischio cardiovascolare rischia presumibilmente ancora di più – dice l’esperto –. D’altro canto, un paziente può ricevere benefici più ampi e rapidi da una riduzione del sale nella dieta». Non bisogna por tempo in mezzo, insomma: al prossimo pasto, niente saliera sul tavolo.

Parliamo di DEFICIT ERETTILE con …

Tratteremo di DEFICIT ERETTILE con il dott. Antonino Pipitone, medico specialista in Endocrinologia e Malattie del Ricambio, Responsabile del Servizio di Diabetologia ed Endocrinologia dell’Ospedale di Adria (Rovigo), Esperto in Diabetologia, Diabete Gestazionale, Obesità, Disturbi dell’Alimentazione, Dislipidemie, Impotenza Sessuale, nostro Ospite in GALENOsalute.

Il deficit erettile è presente in molti pazienti diabetici sopratutto se associato all’ipertensione. Le cause e i modi con cui l’impotenza si manifesta possono essere diversi a seconda dei pazienti e dello stato di avanzamento della malattia diabetica.

Inizialmente si tratta di deficit erettile transitorio o temporaneo dovuto principalmente a problemi psicologici (il dover accettare la malattia, le cure, le paure per il futuro) che determinano calo dell’autostima (il paziente per ovvi motivi si sente menomato e ha scarsa fiducia nel futuro), si chiude, è depresso e si distacca dalle attività della vita personale e di relazione. Questa fase coincide solitamente con il periodo di difficile controllo metabolico a cui conseguono stati di grave iperglicemia. Il buon controllo terapeutico della glicemia, la stabilizzazione e l’accettazione della malattia consentono in questa fase il ripristino della attività sessuale spontanea ed è quindi fondamentale la tempestività nella diagnosi di malattia diabetica, il supporto psicologico e il controllo terapeutico del metabolismo glicidico.

In una fase più avanzata della malattia diabetica il deficit erettile diviene persistente a causa della neuro-angiopatia diabetica che determina una graduale e irreversibile compromissione vascolare e neurologica (ridotta elasticità dei vasi specialmente quelli dei microcircoli periferici e compromissione nervosa) con alterate risposte ai test di trasmissione e percezione nervosa centrale e periferica e agli esami dinamici per lo studio dei distretti vascolari.

Per ciò che concerne altri aspetti, peculiarità ed informazioni Vi invito a contattarci ed approfondire con il nostro Ospite Specialista.

Infarto cardiaco

Infarto cardiacoCos’è? | Si verifica quando l’irrorazione sanguigna del muscolo cardiaco (miocardio) diminuisce o viene a mancare in seguito all’occlusione di una o più arterie coronariche. L’infarto miocardico è una malattia che colpisce più di duecentomila italiani all’anno e che in 1/3 dei casi conduce alla morte. Se l’infarto colpisce solo una zona limitata del muscolo cardiaco, le conseguenze non sono gravi. Se la lesione del muscolo cardiaco è molto estesa, può provocare la morte o un’invalidità (di grado variabile).

Quali sono le cause? | Le arterie coronarie normali appaiono come dei tubi puliti. Ma vi sono dei fattori di rischio che predisporre alla formazione di lesioni aterosclerotiche che alterano le arterie.

Molti sono i fattori che contribuiscono ad aumentare il rischio di infarto miocardico:

1.Età | L’aterosclerosi coronarica, come quella degli altri distretti vascolari, è una malattia di tipo degenerativo, dovuta essenzialmente alla inevitabile senescenza dei vasi; per cui si dice comunemente, non a torto, che abbiamo l’età dei nostri vasi; ed a dispetto di ogni disperata ricerca di ringiovanimento esteriore ed estetico, nessuno può venderci la pillola della giovinezza;

2.Precedenti familiari di infarti | Le malattie cardiovascolari tendono ad aggregarsi in particolari nuclei familiari, per cui si finisce con l’ereditare la predisposizione ad ammalare, ed i discendenti di coronaropatici vanno guardati con particolare attenzione; 

3.Sesso | Per quanto riguarda il sesso, le donne, soprattutto in età feconda, sono relativamente protette rispetto agli uomini dalla aterosclerosi coronarica. Gli indici tendono poi gradualmente a livellarsi dopo la menopausa. Con una Ebct (tomografia a fascio di elettroni) sono state analizzate 541 donne con età media di 48 anni. Quelle in cui l’esame aveva rivelato calcificazioni iniziali (non visibili con esami radiografici tradizionali) dell’aorta e delle arterie coronarie sono andate incontro ad infarto od altra malattia coronarica nei 15 anni successivi l’esame. Un risultato inquietante questa capacità predittiva dell’esame che, proprio per questo, è una formidabile arma di prevenzione. Tutte le donne che hanno modificato il loro stile di vita a rischio (alimentazione ipercalorica e con eccesso di grassi animali) e hanno riportato nei limiti di sicurezza i valori di colesterolo cattivo (LDL) ed elevato quelli del buono (HDL) hanno abbassato il rischio di malattia cardiaca. Va anche detto, però, che l’infarto nelle donne tende ad essere in genere più grave rispetto a quello dei maschi.

4.Livello di colesterolo elevato | I grassi sotto accusa sono il colesterolo totale, la sua frazione LDL ei trigliceridi, il cui tasso aumentato nel sangue è un sicuro fattore di rischio; è un rischio anche la diminuzione del tasso di un’altra frazione del colesterolo, l’ HDL, che ha funzioni protettive. L’ipercolesterolemia di per sé non è una malattia, ma solo un fattore di rischio ed il colesterolo non è un veleno, ma anzi è un costituente fondamentale di tutte le cellule dell’organismo. Il guaio è che per cattive abitudini alimentari il suo livello risulta abnormemente elevato; ciò, sul lungo periodo, può risultare dannoso. I livelli desiderabili di colesterolo sono intorno ai 200 mg/ml ed il dosaggio della colesterolemia rientra in una buona prassi di medicina preventiva, soprattutto nelle fasce di età a rischio (fra i 40 ed i 70 anni), anche se oggi sembra opportuno porsi il problema del suo controllo fin dall’infanzia. E’ dubbio, invece, se valga la pena di effettuare ripetute e frequenti determinazioni del colesterolo in soggetti ultrasettantenni e spesso ottuagenari, anche se è dimostrato che la riduzione della colesterolemia è utile anche in età avanzata. Quello che va evitato è lo stato di ansia e di preoccupazione con cui taluni soggetti in tarda età e spesso abbondantemente di là del rischio “inseguono” affannosamente il loro tasso di colesterolo.

5.Ipertensione
 
6.Diabete 

7.Obesità | Piuttosto che di obesità è meglio parlare di eccesso ponderale. L’eccesso ponderale si accompagna con grande frequenza ad aumento della pressione, della glicemia, dei grassi nel sangue, ed a riduzione dell’attività fisica; inoltre, è un grosso fardello che affatica inutilmente il cuore. Secondo dati recenti nel mondo occidentale circa il 30% della popolazione avrebbe un eccesso ponderale di varia entità. Va precisato, a questo proposito, che si parla di obesità quando il peso corporeo superi del 15% il peso ideale.
La determinazione del peso ideale si ottiene con varie formule. Un criterio abbastanza diffuso definisce come peso ideale il numero di chili pari ai centimetri oltre il metro di statura (quindi, per un uomo alto 1,80 m. il peso ideale sarebbe 80 chili), ma questo criterio è forse più adatto al ventenne che svolga attività fisica; per un sessantenne sedentario appare eccessivamente generoso, e sarebbe consigliabile una riduzione di almeno il 10%. E’ stato anche sicuramente dimostrato che l’aumento del peso del 20% rispetto a quello ideale nei soggetti di media età raddoppia l’incidenza di malattie delle coronarie, e la triplica se l’obesità si accompagna a ipercolesterolemia o ipertensione. Gli obesi malati di cuore vivono in media 4 anni di meno del cardiopatico di peso regolare. L’essere fortemente sovrappeso anticipa poi di 7 anni l’inizio della malattia in chi è predisposto. Negli Stati Uniti è stato anche calcolato che se si riuscisse a debellare il cancro la vita si allungherebbe di meno di due anni, mentre se si eliminasse l’obesità si allungherebbe di 5 anni.

8.Fumo

9.Stress | L’importanza dello stress è generalmente sopravvalutata dai pazienti. In gran parte ciò è dovuto al fatto che è un termine che ha trovato grande successo e diffusione, essendo chiamato in causa per situazioni molto diverse. Essendo utopistico e irrealizzabile l’intento di modificare positivamente l’ambiente in maniera sostanziale, è chiaro che i nostri sforzi sono diretti alla individuazione ed alla eventuale modificazione di quei tratti della personalità che, sottoposti all’influenza ambientale, possano costituire un fattore di rischio per gli eventi coronarici. Numerosi ed approfonditi studi hanno individuato uno specifico atteggiamento comportamentale, definito come personalità di tipo A, che costituisce un sicuro fattore di rischio coronarico. Gli elementi costitutivi del comportamento di tipo A sono rappresentati da una costellazione di atteggiamenti caratteriali che contribuiscono nel loro insieme a determinare uno specifico tipo di personalità.
In sintesi, i tratti distintivi del comportamento di tipo A sono la fretta, l’impazienza, l’eccessiva competitività ed un certo grado di ostilità verso l’ambiente sociale, lavorativo e familiare. Nell’ambito di una strategia riabilitativa globale, in cui gli atteggiamenti psicologici hanno un ruolo fondamentale, la ripresa graduale delle proprie attività, con un’ottica diversa e con una mentalità diversa, favorisce il totale reinserimento sociale, la chiusura di un periodo della vita difficile ed oscuro, culminato con un grave “incidente”, e l’inizio della ricostruzione psico-fisica del paziente, su nuove basi. Sul piano pratico è consigliabile adottare una serie di atteggiamenti di difesa, che potrebbero essere riassunti nei seguenti consigli: eliminare l’eccesso di lavoro; affrontare e risolvere un problema alla volta; crearsi se è possibile un hobby.

10.Sedentarietà | Il tema della sedentarietà, intesa come ridotta attività fisica, è strettamente connesso con quello dell’eccesso ponderale. Una riduzione del dispendio calorico, se si mantengono costanti le entrate, si traduce in un accumulo di grasso ed aumento di peso.”. Accurate indagini statistiche effettuate in un numero rilevante di pazienti hanno consentito di verificare che l’attività fisica si traduce in una diminuzione significativa del rischio cardiovascolare, sia nella prevenzione primaria, cioè nell’evitare un primo infarto, sia, e soprattutto, nella prevenzione secondaria, cioè nell’evitare un secondo infarto in chi ne abbia già subito uno. I meccanismi attraverso i quali l’attività fisica induce effetti benefici sono ben noti, e sono sia diretti che indiretti. Direttamente, l’allenamento fisico, cioè un’attività fisica regolare e costante, produce effetti benefici mediante la riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sotto sforzo, con conseguente risparmio del consumo di ossigeno del muscolo cardiaco, una migliore utilizzazione dell’ossigeno da parte dei muscoli scheletrici, un miglioramento della capacità lavorativa globale, uno spostamento del controllo nervoso del cuore a vantaggio del vago, sistema frenatore e di risparmio, a discapito del simpatico, sistema acceleratore e dispendioso, un innalzamento della soglia a cui compaiono ischemia ed angina durante lo sforzo, ed aritmie minacciose. Indirettamente, l’attività fisica ha effetti benefici attraverso un aumento del colesterolo protettivo HDL, una riduzione dell’aggregabilità delle piastrine, una riduzione della pressione arteriosa, degli ormoni circolanti che stimolano il cuore, della glicemia nel diabete e dei trigliceridi, dell’obesità, dell’abitudine al fumo. Non c’è dubbio, quindi, che l’attività fisica vada incoraggiata ed incrementata e che al contrario la vita sedentaria vada evitata invertendo, così, la radicata tendenza che imponeva periodi di lunga e pressoché completa, e talora definitiva inattività agli infartuati.

Nella maggior parte dei casi, l’infarto miocardico è dovuto alla formazione di un grumo di sangue (coagulo) che ostruisce un’arteria coronarica. Si tratta in questo caso di una trombosi coronaria. E’ più raro che la contrazione temporanea (spasmo), di un’arteria coronaria possa scatenare un infarto.

Quando si verifica | L’infarto è in genere la conseguenza drammatica di una malattia che è iniziata molti anni prima senza manifestarsi fino a quel momento; le cause scatenanti, che in un determinato momento fanno bruscamente precipitare una situazione mantenuta in equilibrio fino ad un istante prima sono assai variabili e non sempre identificabili. Talora il dolore si verifica durante un intenso sforzo fisico compiuto da un soggetto non allenato: la partita di calcio “scapoli-ammogliati” effettuata magari dopo un anno di lavoro a tavolino e magari sotto il solleone e dopo abbondanti libagioni, è responsabile di molte precoci vedovanze. A volte, in associazione ad uno stress psicologico intenso e prolungato, come conflitti o litigi nell’ambito familiare o lavorativo; talora si tratta di forti ed improvvise emozioni a contenuto sgradevole, come aggressioni, rapine, coinvolgimento in incidenti stradali ed in disastri come terremoti, alluvioni, incendi, etc. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi non si riesce ad individuare il meccanismo scatenante dell’evento infartuale, e va anzi ricordato che studi ormai numerosi di cronobiologia hanno dimostrato in maniera inconfutabile che il maggior numero di infarti si verifica nelle primissime ore del mattino quando il paziente è in completo riposo. Gli infarti fatali avrebbero, inoltre, una stagionalità tra dicembre e gennaio.

Quali sono i sintomi? | La parola angina introduce l’elemento soggettivo della sofferenza ischemica del muscolo cardiaco: il sintomo dolore. Sia l’ischemia che l’infarto generalmente provocano dolore anginoso, ed in genere il dolore dell’infarto è più intenso e soprattutto più prolungato. Il primo sintomo dell’infarto cardiaco è il dolore, si manifesta come un senso di fastidio al petto. La sensazione di oppressione, compressione, dolore o peso nel centro del petto si può irradiare alle spalle, al collo, alle braccia o alla schiena. Spesso l’infarto si rivela con l’insieme dei seguenti sintomi: Abbondante sudorazione fredda nella parte superiore del corpo, stordimento, mancanza di fiato e nausea.  La mancanza di fiato è dovuta all’impossibilità del cuore di pompare in modo efficace e determina, in alcuni pazienti, una sensazione di oppressione al petto come una corda che stringe. Se si è in grado di riconoscere i sintomi dell’angina e dell’infarto, si potrà essere in grado di salvare la vita a se stessi o agli altri. Se invece non si riconoscono i sintomi o si attribuiscono ad un altro disturbo (un’indigestione…) il trattamento dell’infarto arriverà troppo tardi. Purtroppo, in una buona percentuale di casi, sia l’ischemia che l’infarto possono non accompagnarsi a dolore: condizioni queste rispettivamente definite ischemia silente ed infarto silente. La prognosi, il decorso ed il rischio dell’ischemia e dell’infarto silente non differiscono sostanzialmente dalle forme che si accompagnano a dolore; non si tratta di forme “lievi” della malattia; anzi, l’assenza di un campanello di allarme come il dolore può esporre in definitiva il paziente ad un rischio maggiore.

Qual è la differenza tra infarto ed ischemia? | S’intende per ischemia lo stato di sofferenza del muscolo cardiaco non sufficientemente irrorato. C’è una differenza fondamentale tra infarto ed ischemia. L’infarto è un’interruzione totale del flusso del sangue al cuore, i cui sintomi durano più di 15 minuti, non scompaiono con il riposo o con i farmaci (con la nitroglicerina sono solo alleviati) ed una parte del muscolo cardiaco incomincia a morire. E’, quindi, una condizione stabile ed irreversibile. L’ischemia è transitoria e reversibile; consiste in una temporanea interruzione del flusso di sangue ossigenato al cuore; i sintomi durano pochi minuti e si possono alleviare con il riposo o con i farmaci. Ciò che determina il punto di passaggio fra ischemia ed infarto è la durata dell’assenza di flusso; infatti, il muscolo cardiaco riesce a tollerare l’assenza di irrorazione per un tempo limitato (meno di 30 minuti), al di là del quale comincia ad andare in necrosi, a morire. Nella maggioranza dei casi, l’ischemia si determina quando, a fronte di una maggiore richiesta di ossigeno e materiali nutritivi, e quindi di un aumento di flusso, determinata da un’attività fisica più o meno intensa, questa richiesta non può essere soddisfatta a causa dei restringimenti (stenosi) prodotti all’interno delle arterie coronarie dalla malattia aterosclerotica. Si crea così una discrepanza transitoria fra necessità di apporto e possibilità di adeguamento dei flussi; questa è la condizione detta “angina da sforzo”.

Cosa succede nella zona del cuore in cui le cellule sono morte? | In alcuni casi di infarto la porzione di parete del muscolo cardiaco non più contrattile, cicatriziale ed assottigliata, protrude durante la contrazione (in sistole), dando luogo a quello che si definisce aneurisma ventricolare. Questa, comunque è una conseguenza abbastanza rara dell’infarto; generalmente, invece, l’assottigliamento della zona infartuata, pur senza dar luogo all’aneurisma, finisce col provocare un’alterazione più o meno grave della geometria ventricolare, che risponde a precise e rigorose leggi fisiche, ed un deterioramento della funzione meccanica della pompa. E’ intuitivo che le conseguenze “meccaniche” dell’infarto saranno tanto più gravi quanto più estesa è la zona assottigliata e non contrattile; generalmente, si ritiene che l’infarto sia più o meno grave in relazione alla sede (anteriore, o posteriore o inferiore). Tradizionalmente si ritiene che l’infarto posteriore o inferiore sia meno grave di quello anteriore; questo potrà anche essere vero, ma la cosa più importante nel determinare la prognosi sia immediata sia a distanza dell’infarto non è tanto la sua sede, quanto la sua estensione. È meglio, quindi, sotto questo aspetto, distinguere infarti piccoli e circoscritti da infarti estesi. Inoltre, i danni meccanici prodotti da un eventuale secondo infarto, soprattutto se questo interessa una zona diversa dal precedente, si sommano a quelli provocati dal primo.

Quando consultare il medico? | Ogni sintomo che segnali l’inizio di un infarto impone l’immediata consultazione del medico. Se il medico non è rintracciabile, chiamare un’ ambulanza e raggiungere immediatamente il pronto soccorso dell’ospedale più vicino.

Cosa fanno al pronto soccorso? | Una volta chiarito che il confine fra ischemia ed infarto è solo temporale, e che vi sono dei tempi, anche se ristretti, e dei mezzi che consentono di arrestare l’evoluzione dell’ischemia in infarto, si capisce bene l’importanza del fattore tempo. Gli specialisti del pronto soccorso, dopo un elettrocardiogramma di conferma, avvieranno subito le analisi del sangue per dosare gli enzimi liberatisi durante l’infarto dal muscolo cardiaco (mioglobina, troponina, GOT, GPT, LDH, CK, CKMB).

Qual è la terapia per l’infarto miocardico? | Fino a poco tempo fa la terapia consisteva essenzialmente nell’alleviare il dolore e nel trattare le complicanze precoci. La moderna terapia della malattia coronarica si basa su tre cardini: le cure mediche (nuovi farmaci, conosciuti con il nome di trombolitici, permettono oggi di sciogliere rapidamente i grumi di sangue all’origine della maggior parte degli infarti), la chirurgia del bypass aorto-coronarico, e la dilatazione con palloncino delle coronarie stenotiche (angioplastica coronarica).

Come evitare l’infarto miocardico?

  • Smettere di fumare;
  • Mantenere il peso ideale;
  • Alimentarsi con cibi poveri di grassi animali;
  • Praticare un esercizio fisico regolare e senza eccessi;
  • Mantenere a livelli normali la pressione arteriosa, il colesterolo e la glicemia.

Si può ritornare ad una vita normale?

Un infarto piccolo non ha conseguenze gravi. La riabilitazione ed una terapia appropriata permetterà al muscolo cardiaco di riprendere la propria funzione e lascerà solo strascichi trascurabili. Il 50% delle persone colpite da un infarto miocardico ritornano ad una vita normale nel giro di pochi mesi.

I numeri del cuore italiano
300: casi di infarto ogni 100.000 abitanti;80.000: infarti diagnosticati ogni anno;8%:casi di reinfarto ad un anno dal primo evento;

200.000: persone con fibrillazione atriale… delle quali;

Il 5-7%: lamenta, ogni anno, embolie cerebrali con decadimento delle funzioni cognitive sino alla demenza;

250: casi di ictus ogni 100.000 abitanti;

35-40%: casi di ictus in meno con la riduzione di 5-6 mmHg di pressione sistolica;

1.000.000: sopravvissuti ad almeno un infarto.

a cura del Centro per la Lotta Contro l’Infarto

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