Archivio per agosto 2010

Pipistrelli e epatite C, cosa hanno in comune?

Il virus dell’epatite C e i pipistrelli potrebbero avere qualcosa in comune.

A suggerirlo è uno studio statunitense pubblicato dalla rivista Plos Pathogens. Attravero indagini genetiche i ricercatori hanno scoperto che materiale genetico di un virus correlato a quello dell’epatite nella saliva di 98 pipistrelli del paese asiatico, e secondo l’articolo il fatto che i campioni contenessero Dna virale suggerisce un meccanismo per la trasmissione da questi animali ad altri, fino ad arrivare all’uomo.

Prima di questo studio tracce del virus erano state trovate nei primati, ma secondo i ricercatori l’origine potrebbe essere proprio nei pipistrelli. “Oltre a fornire una prova dell’origine dell’epatite – ha spiegato Ian Lipkin del Center for Infection and Immunity della Columbia University – questo studio conferma l’importanza di monitorare la presenza di virus negli ‘hotspots’ come quello dell’Asia, per prevenire future epidemie”.

Un test genetico potrà predire l’ictus cerebrale nei diabetici

E’ stato identificato nelle persone con diabete di tipo 2 un profilo genetico, costituito dalla combinazione di polimorfismi di 5 geni infiammatori, in grado di predire in maniera altamente significativa il rischio di sviluppare un ictus ischemico, in un arco di tempo superiore ai 6 anni. È il risultato di uno studio italo- scozzese coordinato dal Dr. Roberto Pola, ricercatore dell’Istituto di Medicina Interna e Geriatria dell’Università Cattolica-Policlinico “A. Gemelli” di Roma. Lo studio condotto in collaborazione con un gruppo di ricercatori scozzesi dell’University of Dundee, guidati dal Prof. Colin Palmer, “Chair of Pharmacogenomics”, è stato pubblicato su Diabetes. Hanno collaborato Eleonora Gaetani dell’Istituto di Patologia Speciale Medica e Semeiotica Medica e Miriam Quarta. La ricerca è stata eseguita su più individui affetti da diabete mellito tipo 2, partecipanti allo studio prospettico Go-DARTS, che viene condotto da quasi 20 anni nella regione Tayside della Scozia e arruola tutti i pazienti diabetici della regione. Dal 1992, questi soggetti sono stati seguiti dal punto di vista clinico, con particolare attenzione allo sviluppo di complicanze cardiovascolari del diabete, come ad esempio l’ictus.
“Abbiamo studiato oltre 2.100 soggetti che, in un periodo di tempo superiore ai 6 anni, hanno presentato un ictus ischemico con una percentuale di circa il 7% – spiega il Dr. Pola – per i quali era disponibile il DNA per l’esecuzione di test genetici. E’ stato individuato un profilo genetico, costituito dalla combinazione di polimorfismi di 5 geni infiammatori (Interleuchina-6, ICAM-1, MCP-1, E-selectina e MMP-3), che è in grado di predire in maniera altamente significativa il rischio di sviluppare un ictus ischemico, in un arco di tempo superiore ai 6 anni“. In effetti, coloro che posseggono almeno 4 di queste mutazioni presentano un’incidenza di ictus ischemico che è 10 volte superiore a quella che si riscontra nei soggetti che non hanno nessuna di questa mutazioni. Il rischio di ictus aumenta in maniera progressiva con il numero di mutazioni (da 0 a 5) presentate nel singolo soggetto.
“È importante sottolineare – continua il ricercatore della Cattolica di Roma – che nessuno di questi 5 polimorfismi è in grado di predire il rischio di ictus quando analizzato da solo. E’ soltanto la particolare combinazione di questi 5 polimorfismi genici, che conferisce l’aumentato rischio di ictus nei pazienti diabetici”.
La ricerca apre la strada alla possibile realizzazione di un test diagnostico per i soggetti diabetici, che hanno un rischio raddoppiato rispetto alla popolazione generale di essere colpiti da malattie cardiovascolari (infarti o ictus). “Il nostro obiettivo – dice Pola – è l’esecuzione di un test genetico, facilmente eseguibile e relativamente economico in grado di individuare quali soggetti diabetici hanno maggiore rischio di avere un ictus ischemico nel futuro. Una volta individuati, questi soggetti potrebbero essere sottoposti a più aggressive terapie di prevenzione degli eventi cardiovascolari, oltre che a uno screening diagnostico più intenso, quale, per esempio, l’esecuzione di eco-doppler delle arterie carotidi a intervalli di tempo più ravvicinati. Inoltre, dato che questo profilo genetico è costituito da variazioni di geni infiammatori, è anche possibile ipotizzare che questi individui possano trarre beneficio da un terapia anti-infiammatoria cronica”.
Lo studio nelle intenzioni dei ricercatori si aprirà a nuovi scenari di applicazione diagnostica. “Insieme ai più importanti ricercatori sull’ictus a livello mondiale appartenenti a centri universitari in Inghilterra, Scozia, Germania, Spagna, Portogallo e USA, oltre che in Italia testeremo se questo profilo genetico è in grado di predire il rischio di ictus non solo nei diabetici, ma anche nella popolazione generale”, afferma il Dr. Pola, coordinatore e responsabile di questo gruppo di ricerca internazionale. Il Dr. Pola ha ottenuto il permesso di analizzare i dati genetici di tre importanti studi internazionali (il Go-DARTS in Scozia, il WTCCC2 in Inghilterra e Germania e l’Health ABC negli USA). Inoltre, verranno studiati ulteriori casistiche di provenienza italiana, spagnola e portoghese. In totale, lo studio comprendera’ circa 18.000 individui. “Il prossimo step – conclude il ricercatore della Cattolica – è di testare questo modello genetico di rischio di ictus in varie popolazioni in differenti Paesi, e anche di individuare ulteriori modelli genetici in grado di predire non solo il rischio di ictus ischemico, ma anche quello di altre malattie cardiovascolari, quali l’infarto del miocardio, l’ischemia degli arti inferiori, e la nefropatia vascolare e diabetica”.

 

Stressati si nasce!

C’è chi nei momenti più difficili riesce a mantenere il sangue freddo e chi invece soccombe letteralmente allo stress. La spiegazione di questa differenza si nasconde dietro un gene che si eredita dalla famiglia. A identificarlo è stato un gruppo di ricercatori del Donders Institute for Brain, Cognition and Behaviour di Nimega (Paesi Bassi) in uno studio presentato al Forum Europeo di Neuroscienze ad Amsterdam.

Gli scienziati hanno utilizzato lo scanner cerebrale per analizzare come il cervello di un gruppo di persone reagisce allo stress. Per indurre la condizione i soggetti sono stati invitati a vedere una scena violenta in un film, seguita da una serie di immagini raffiguranti volti arrabbiati e spaventati. Ebbene, i ricercatori hanno osservato che l’amigdala, una ‘regione primitiva’ del cervello che aiuta a tenere sotto controllo le nostre emozioni, è più attiva in coloro che hanno ereditato il gene dello stress. Secondo gli scienziati, circa la metà di tutte le persone hanno questo gene che li rende più cauti nell’affrontare i problemi, ma anche più vulnerabili alle pressioni.

“Questa differenza genetica individuale – ha spiegato Guillen Fernandez , ricercatore che ha coordinato lo studio – si manifesta solo quando le persone sono sottoposte a stress. Questa è la prima volta che è stata trovata – ha continuato – una variazione genetica responsabile di una risposta diversa agli stimoli emotivi solo quando gli individui sono stressati”. Attualmente “stiamo valutando – ha concluso Guillen – se queste persone sono anche piu’ inclini a sviluppare disturbi da stress post-traumatico dopo aver vissuto un vero trauma”.

Il cromosoma y e i disturbi sessuali

Anche se la ricerca non è recente Ve la propongo in quanto sicuramente interessante e non di facile reperimento.

Le caratteristiche vincenti del cromosoma Y umano potrebbero anche essere la causa di disturbi sessuali. Lo hanno scoperto i ricercatori del Whitehead Institute for Biomedical Research (Stati Uniti), che hanno spiegato in un articolo pubblicato sulla rivista Cell (03 settembre 2009) come mai il punto di forza del cromosoma Y è anche una sua grande debolezza.

“Il cromosoma Y è essenzialmente ‘unico’ all’interno del nostro patrimonio genetico. Durante la riproduzione cellulare, infatti, non si accoppia con nessun altro cromosoma per scambiare i geni”, ha spiegato David Page, scienziato a capo dello studio.

“In questo modo si preserva nel corso del tempo senza scambiare materiale genetico con altri cromosomi, ma ha un modo per poter rimescolare i suoi stessi geni: si ripiega su se stesso, accoppiando regioni simili”. Questa peculiarità spiega come mai il cromosoma Y sia sopravvissuto a milioni di anni di evoluzione, ma sia anche l’origine di disturbi della sfera sessuale. “Questo processo di ripiegamento può causare l’origine di un cromosoma ‘palindromo’”, ha detto Page.

“Una struttura anormale che è suscettibili di errori di divisione e rotture durante la riproduzione cellulare”. Errori che causano perdita di materiale genetico, che si traduce in anomalie del sesso del nascituro. “Sindromi sessuali come quella di Turner, o problemi nella produzione di sperma, potrebbero essere causati da errori del genere”, ha detto Page.

“Il ruolo del cromosoma Y nella determinazione del sesso e della sua funzionalità è fondamentale”. Per Page, le anomalie del cromosoma Y possono essere responsabili di una percentuale significativa della Sindrome di Turner, una condizione che causa malformazioni alla nascita e malattie in età avanzata.



 

Eczema: come riconoscerlo e cosa fare per curarlo

In seguito le vescicole si cicatrizzano formando delle croste e infine si manifesta la desquamazione della pelle. L’eczema provoca un intenso prurito, così fastidioso da impedire in alcuni casi persino il sonno, mentre la qualità della vita peggiora sensibilmente.

Nella dermatite da contatto l’infiammazione è provocata da particolari sostanze che vengono a contatto con la pelle. Gli eczemi da contatto possono essere di tipo allergico o non allergico. Le sostanze sensibilizzanti, responsabili dell’eczema, sono moltissime: i metalli come cromo, nichel, cobalto; i farmaci per uso locale (antibiotici, antistaminici); i cosmetici (tinture per capelli, smalto per unghie, deodoranti); alcune fibre tessili; alcune sostanze usate in ambiente domestico (come i detersivi). Alla diagnosi si giunge mediante test allergologici cutanei.

L’eczema atopico è un’infiammazione superficiale della pelle, cronica e pruriginosa ed è associata spesso ad una storia personale e familiare di malattie allergiche. Nella maggior parte dei casi l’eczema atopico sorge fra il secondo e il sesto mese di vita, raramente compare in età adulta. Nei primi due anni di vita le lesioni sono localizzate al cuoio capelluto, al viso, agli arti e al tronco. Alcuni bambini guariscono entro il secondo anno di vita, in altri la malattia regredisce durante la pubertà, in altri ancora persiste per tutta la vita con alterne fasi di riaccensione e di remissione.

Nella dermatite da contatto va individuata la sostanza o le sostanze dannose: il contatto con queste sostanze va evitato o se non è possibile occorre indossare indumenti protettivi (esempio guanti), o proteggere la pelle con delle speciali creme che fungono da barriera.

La dermatite atopica si cura con cortisonici e mantenendo la pelle sempre ben protetta e idratata. Bisogna quindi evitare l’uso di sostanze irritanti come profumi e cosmetici, non utilizzare sapone sulle parti colpite oppure utilizzare per la pulizia della pelle prodotti indicati. Inoltre, i vestiti devono essere di cotone, leggeri. La lana e le fibre sintetiche possono far peggiorare l’irritazione.

L’eczema è una reazione della pelle non contagiosa di tipo infiammatorio. Gli eczemi costituiscono dal 30% al 50% di tutti i problemi di tipo dermatologico. Le cause possono essere diverse, mentre le forme sono prevalentemente due, una forma di eczema dovuta al contatto con sostanze irritanti o allergizzanti anche detta eczema da contatto e una forma dovuta a particolari disfunzioni del nostro organismo, meglio conosciuta con il nome di eczema atopico. Nella fase più acuta l’eczema si manifesta con edemi e vesciche sulla pelle, che possono rompersi liberando un liquido biancastro.

Ernia del disco: nuove terapie per sconfiggere il dolore

Le cellule sotto accusa sono le nelle interleuchine-17, un gruppo di citochine utili a regolare la risposta infiammatoria. William J. Richardson, a capo della ricerca, sostiene che “Identificando la subpopolazione specifica di linfociti (cellule immunitarie attivate dalle citochine) potrebbe essere possibile arrestare la risposta infiammatoria a livello dei dischi vertebrali”.

E’ proprio lì infatti, a livello dei dischi vertebrali, che l’ernia si manifesta. Come ha spiegato il professor Mohammed Shamji del Duke University Medical Center in North Carolina, l’ernia del disco si presenta quando la superficie esterna della cartilagine che separa le vertebre si rompe e alcune parti della sostanza interna fuoriescono dal canale spinale. Il dolore insorge quando gli anticorpi attaccano il materiale fuoriuscito, riconoscendolo come elemento estraneo (così come succede con i virus e i batteri).

Stando a quanto dicono i ricercatori, limitare l’azione delle interleuchine-17 non avrebbe ripercussioni sulla funzionalità del sistema immunitario. Ulteriori approfondimenti permetteranno, con buone probabilità, di mettere a punto nuove terapie in grado di sconfiggere il dolore.

I mal di schiena non sono tutti uguali: quelli causati da ernia del disco, oltre a essere particolarmente dolorosi, sono anche difficili da curare. Grazie a uno studio pubblicato su Arthritis and Rheumatism, è stato ora identificato un gruppo di cellule che sembrerebbe ricoprire un ruolo chiave nella serie di eventi che portano al dolore. Il prossimo obiettivo è quello di sfruttare la scoperta per sviluppare nuove strategie terapeutiche efficaci.

Zona Franca: Stress Ossidativo

GALENOsalute avvalendosi della collaborazione di Franca Aleo (titolare di Herbora – Marsala) presenta la rubrica settimanale Zona Franca: “l’informazione diventa benessere”, dove fitoterapia ed oligoelementi vengono proposti come base di cure alternative e complementari.

Questa settimana parliamo di “Stress Ossidativo”. 

Nel loro continuo ed incessante movimento, gli elettroni che circondano il nucleo di un atomo non seguono traiettorie circolari o ellittiche, come le orbite dei pianeti, ma delimitano aree ben precise denominate orbitali. Ogni orbitale può “ospitare” al massimo due elettroni e ciò conferisce all’atomo di appartenenza caratteristiche di stabilità o inerzia chimica. I radicali liberi dell’ossigeno sono atomi singoli o raggruppati, uno dei quali, almeno, appartiene all’ossigeno e possiede uno o più elettroni “spaiati” in uno dei suoi orbitali più esterni. La presenza di elettroni spaiati è responsabile della particolare “instabilità” dei radicali liberi che, pertanto, tendono a reagire praticamente con qualsiasi molecola organica vengono a contatto (es. glicidi, lipidi, amminoacidi, proteine, nucleotidi etc) all’interno della cellula. Quando ciò accade, da questa interazione vengono generati dei “sottoprodotti”, i derivati o metaboliti reattivi dell’ossigeno (Reactive Oxygen Metabolites, ROM). Questi ultimi, essendo dotati di un discreto potere ossidante, possono continuare ancora a danneggiare la cellula che, pertanto, cerca di liberarsene versandoli in circolo. Qui, i ROM possono ancora attaccare le cellule che rivestono i vasi sanguigni (endotelio) e le proteine che veicolano i trigliceridi e il colesterolo (lipoproteine) ogni qualvolta il pH ematico si abbassa di poche unità (acidosi). In tali condizioni, infatti, il ferro dapprima legato alle proteine plasmatiche viene liberato ed agisce da catalizzatore in una reazione in cui alcuni di questi ROM, gli idroperossidi (ROOH), sono scissi in due tipi di radicali liberi, il radicale alcossile e il radicale perossile, i mediatori finali del danno ossidativo. Per questo loro comportamento, gli idroperossidi, un gruppo numeroso di sostanze appartenenti ai ROM, sono stati definiti i marcatori e gli amplificatori del danno da radicali liberi. Il loro dosaggio è oggi possibile tramite il d-ROMs test. Nel d-ROMs test, i ROM (principalmente gli idroperossidi) contenuti nel sangue da analizzare, in presenza di ferro (liberato dalle proteine plasmatiche da un tampone acido, il reagente R2 del kit), generano, per la cosiddetta “reazione di Fenton”, radicali alcossilici (R-O*) e perossilici (R-OO*) che, reagendo con un’ammina aromatica sostituita (A-NH2, contenuta in una miscela cromogena, il reagente R1 del kit), ossidano quest’ultima trasformandola in un derivato colorato in rosa ([A-NH2*]+), secondo le reazioni:


1A) R-OOH + Fe2+ => R-O* + Fe3+ + OH-

1B) R-O* + A-NH2 => R-O- + [A-NH2*]+

Per i radicali alcossilici

2A) R-OOH + Fe3+ => R-OO* + Fe2+ + H+

2B) R-OO* + A-NH2 => R-OO- + [A-NH2*]+

Per i radicali perossilici 

Tale derivato, infine, viene quantificato fotometricamente. Infatti, l’intensità del colore sviluppato sarà direttamente proporzionale alla concentrazione dei ROM (in accordo con la legge generale della fotometria di Lambert-Beer). La procedura per l’esecuzione del d-ROMs test è estremamente semplice in quanto è disponile un kit comprensivo di tutto l’occorrente per l’analisi. In pratica, 20 mL di sangue intero, ottenuti mediante prelievo capillare dal polpastrello di un dito, sono disciolti nel reagente R1 (tampone) al quale si aggiunge, infine, il reagente R2 (cromogeno). La soluzione ottenuta viene dapprima centrifugata, per separare la componente corpuscolata del sangue, e poi sottoposta a lettura fotometrica. Il valore di riferimento del test, determinato su un campione di circa 5.000 soggetti sani, è compreso fra 250 e 300 U CARR, indipendentemente dal sesso e dall’età. Tuttavia, i neonati presentano valori sensibilmente più bassi, le gravide più alti. Valori superiori a 300 U CARR configurano, dopo una fascia border-line (301 – 320 U CARR), livelli progressivamente crescenti di stress ossidativo.

lI test è molto semplice.  Si effettua utillizzando una goccia di sangue capillare. Consente la determinazione della concentrazione a livello plasmatico di radicali liberi. Il d-ROMs test si basa sulla capacità che hanno i metalli di transizione, una volta liberati dalla forma chelata a proteine di trasporto e di deposito in cui di norma si trovano nel plasma e nelle cellule, di catalizzare reazioni di formazione di radicali liberi secondo la reazione di Fenton. I radicali prodotti, la cui quantità è direttamente proporzionale alla quantità di perossidi presenti nel plasma, vengono intrappolati chimicamente da molecole di un derivato aromatico  che li trasformano in ioni ed assumono loro lo stato di radicali liberi dando luogo ad una colorazione valutabile fotometricamente. Il d-roms test quantizza lo stato di ossidazione ematico in termini di u.Carr (unità Carratelli) dal nome dell’inventore della metodica. Il valore di 1 u.Carr corrisponde ad una concentrazione di perossido di idrogeno di 0,08 mg%.

VALORE DI RIFERIMENTO: 250 – 300 U.Carr | VALORE SOGLIA BORDER LINE: 300 – 320 U.Carr 

  • CONDIZIONE DI LIEVE STRESS OSSIDATIVO: 320 – 340 U.Carr
  • CONDIZIONE DI STRESS OSSIDATIVO: 340 – 400 U.Carr
  • CONDIZIONE DI FORTE STRESS OSSIDATIVO: 400 – 500 U.Carr
  • FORTISSIMO STRESS OSSIDATIVO: OLTRE 500 U.Carr

valori inferiori a 250 U.Carr si possono riscontrare in pazienti con trattamento cortisonico od antiossidante

Nel plasma è identificabile una vera e propria “Barriera Antiossidante”, alla cui costituzione contribuiscono sostanze sia assunte dall’esterno con l’alimentazione (es. carotenoidi, ascorbato, vitamina E, ecc.) che prodotte dall’organismo (es. GSH, proteine, bilirubina, acido urico, ecc.). Ognuno di questi componenti, essendo in grado di “donare”, sebbene in diversa misura, elettroni, blocca la potenziale lesività dei radicali liberi, la cui reattività è proprio legata alla particolare “carenza” di queste piccole particelle negative. Ovviamente, qualsiasi “insulto” a carico di tale barriera consente ai radicali liberi di attaccare e danneggiare le strutture cellulari, ponendo le basi per le lesioni tipiche dello stress ossidativo e di tutte le sue temibili conseguenze (invecchiamento precoce, malattie, ecc.). L’efficienza della barriera antiossidante plasmatica può essere valutata saggiandone la capacità di ridurre un determinato substrato, ossia di dare elettroni ad un agente ossidante (avido di elettroni), che funge da “sensore”. In ultima analisi, infatti, il cosiddetto potere antiossidante altro non è, in termini rigorosamente chimici, che un’attività riducente, cioè elettron-donatrice. Se la riduzione del substrato ossidante (“sensore”) viene fatta avvenire in presenza di un agente (“cromogeno”) che ha la caratteristica di cambiare colore per effetto di reazioni di ossido-riduzione, nel momento in cui tutto il sistema è completo, mettendo a contatto un’aliquota di plasma con il substrato ossidante e il cromogeno, sarà anche possibile, per via fotometrica, con opportuni filtri, “leggere” il segnale indotto dall’avvenuta riduzione e, in definitiva, quantificare l’attività antiossidante presente nel campione di plasma analizzato, ovviamente in termini di potere riducente (rispetto a quel determinato substrato utilizzato come ossidante-sensore).

Il BAP (Biological Antioxidant Potential) test valuta il potere antiossidante del plasma in termini di capacità di quest’ultimo di ridurre gli ioni ferrici a ioni ferrosi, rilevando per via fotometrica, attraverso il FRAS 4, le variazioni cromatiche di un apposito cromogeno. Il BAP test si basa sulla capacità che ha una soluzione di ioni ferrici (Fe3+) complessati ad un particolare cromogeno e, quindi, colorata, di decolorarsi allorché gli ioni Fe3+ sono ridotti a ioni ferrosi (Fe2+), come accade, per esempio, se si aggiunge ad essa un sistema riducente, ossia antiossidante, quale il plasma. Nel BAP test, pertanto, il campione di plasma da analizzare viene disciolto in una soluzione, colorata, ottenuta aggiungendo una fonte di ioni ferrici (FeCl3, cloruro ferrico, reagente R2) ad un particolare cromogeno (un composto a base di zolfo, reagente R1). Dopo una breve incubazione (5 minuti) la soluzione si decolorerà e la decolorazione sarà tanto più marcata quanto più i componenti del plasma testato saranno riusciti a ridurre, nell’intervallo considerato, gli ioni ferrici inizialmente presenti, responsabili della formazione del complesso cromatico. Valutando per via fotometrica l’entità della decolorazione sarà possibile risalire alla quantità di ioni ferrici ridotti e, in definitiva, alla capacità riducente, ossia al potere antiossidante del plasma testato. In pratica, il campione di plasma, ottenuto per centrifugazione del sangue intero, viene disciolto nella soluzione, colorata, ottenuta mescolando il reagente R2 (FeCl3) con il reagente R1 (cromogeno). Dopo 5 minuti di incubazione la soluzione viene sottoposta a lettura fotometrica per l’emissione del risultato. L’intervallo di riferimento stimato del BAP test negli individui normali è > 2200 µM. Una riduzione dei valori del test al di sotto di questo intervallo appare direttamente correlata con una ridotta efficienza della barriera antiossidante plasmatica, come si osserva quasi costantemente negli anziani. Il test è particolarmente utile nella valutazione dell’efficacia dei trattamenti sia specifici che antiossidanti messi in atto in numerose patologie.

Il BAP test consente di determinare l’efficienza della Barriera Antiossidante Plasmatica in termini di attività ferro-riducente. Il valore ottimale è 2200 m Eq/L. Valori inferiori a tale limite segnalano un deficit dei sistemi di difesa antiossidanti.

Grazie a questi due test è possibile porre una diagnosi di laboratorio di stress ossidativo estremamente precisa ed affidabile, ove le due componenti contrapposte, quella pro- ed anti-ossidante possono essere valutate distintamente.

Inoltre si può stabilire in tempo reale se lo Stress Ossidativo è dovuto ad un aumentata produzione e/o ad una ridotta capacità di eliminazione dei radicali liberi. In questo modo anche il monitoraggio della terapia antiossidante può poggiarsi su basi più solide e uscire dalla fase empirica in cui spesso viene a trovarsi.

Fonte sito del Dott. Mauro Mario Mariani www.mmmariani.com

Notti di sesso, un mito da sfatare? Bastano “solo” 10 minuti?

La notizia uscita da pochi giorni in merito alla durata dei rapporti sessuali, potrebbe sfatare il mito del doversi intrattenere con il proprio partner per una notte intera o per svariate ore.

Infatti un rapporto davvero soddisfacente dovrebbe durare una decina di minuti. Questo in base ad una indagine effettuata fra cinquanta specialisti della “Society For Sex Therapy and Research” e poi pubblicata sul “Journal of Sexual Medicine“.

Gli esperti in questione, basandosi sulla propria esperienza professionale con migliaia di coppie, sono riusciti a definire quale dovrebbero essere i “tempi dell’amore”. Da 3 a 7 minuti siamo nei limiti dell’accettabile, 1-2 minuti ovviamente sono insufficienti, mentre al di sopra dei 13 minuti il rapporto dura troppo con la conseguenza di diventare noioso. Alla luce di ciò, un rapporto della durata di 10 minuti, in base a questi studiosi, sarebbe soddisfacente.

Un’intera notte di sesso è una fantasia diffusa, che se tradotta in pratica, non dà i risultati sperati“, afferma il dottor Eric Corty, psicologo, autore dello studio in questione e professore alla Penn State University. “Speriamo che questa ricerca dissipi le fantasie e incoraggi uomini e donne con dati realistici“.

Mettiamo, quindi, al bando la fantasia, preliminari ed effusioni varie?

Diamo una misura, in termini di tempo, a qualcosa di molto personale e variabile?

E’ ovvio che un rapporto troppo breve non permette di raggiungere un accettabile livello di piacere. Così come una durata eccessiva, per la maggior parte delle coppie, rappresenta una noiosa e stancante “maratona”.

Ma una cosa è certa: ognuno ha i propri tempi, così come ogni coppia ha le proprie dinamiche. Dieci minuti possono essere abbastanza per alcuni, ma davvero pochi per altri. Sesso ed amore, di solito, vanno ben al di là di questi numeri.


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