GALENOsalute avvalendosi della collaborazione di Franca Aleo (titolare di Herbora – Marsala) presenta la rubrica settimanale Zona Franca: “l’informazione diventa benessere”, dove fitoterapia ed oligoelementi vengono proposti come base di cure alternative e complementari.
Questa settimana parliamo di “Stress Ossidativo”.
Nel loro continuo ed incessante movimento, gli elettroni che circondano il nucleo di un atomo non seguono traiettorie circolari o ellittiche, come le orbite dei pianeti, ma delimitano aree ben precise denominate orbitali. Ogni orbitale può “ospitare” al massimo due elettroni e ciò conferisce all’atomo di appartenenza caratteristiche di stabilità o inerzia chimica. I radicali liberi dell’ossigeno sono atomi singoli o raggruppati, uno dei quali, almeno, appartiene all’ossigeno e possiede uno o più elettroni “spaiati” in uno dei suoi orbitali più esterni. La presenza di elettroni spaiati è responsabile della particolare “instabilità” dei radicali liberi che, pertanto, tendono a reagire praticamente con qualsiasi molecola organica vengono a contatto (es. glicidi, lipidi, amminoacidi, proteine, nucleotidi etc) all’interno della cellula. Quando ciò accade, da questa interazione vengono generati dei “sottoprodotti”, i derivati o metaboliti reattivi dell’ossigeno (Reactive Oxygen Metabolites, ROM). Questi ultimi, essendo dotati di un discreto potere ossidante, possono continuare ancora a danneggiare la cellula che, pertanto, cerca di liberarsene versandoli in circolo. Qui, i ROM possono ancora attaccare le cellule che rivestono i vasi sanguigni (endotelio) e le proteine che veicolano i trigliceridi e il colesterolo (lipoproteine) ogni qualvolta il pH ematico si abbassa di poche unità (acidosi). In tali condizioni, infatti, il ferro dapprima legato alle proteine plasmatiche viene liberato ed agisce da catalizzatore in una reazione in cui alcuni di questi ROM, gli idroperossidi (ROOH), sono scissi in due tipi di radicali liberi, il radicale alcossile e il radicale perossile, i mediatori finali del danno ossidativo. Per questo loro comportamento, gli idroperossidi, un gruppo numeroso di sostanze appartenenti ai ROM, sono stati definiti i marcatori e gli amplificatori del danno da radicali liberi. Il loro dosaggio è oggi possibile tramite il d-ROMs test. Nel d-ROMs test, i ROM (principalmente gli idroperossidi) contenuti nel sangue da analizzare, in presenza di ferro (liberato dalle proteine plasmatiche da un tampone acido, il reagente R2 del kit), generano, per la cosiddetta “reazione di Fenton”, radicali alcossilici (R-O*) e perossilici (R-OO*) che, reagendo con un’ammina aromatica sostituita (A-NH2, contenuta in una miscela cromogena, il reagente R1 del kit), ossidano quest’ultima trasformandola in un derivato colorato in rosa ([A-NH2*]+), secondo le reazioni:
1A) R-OOH + Fe2+ => R-O* + Fe3+ + OH-
1B) R-O* + A-NH2 => R-O- + [A-NH2*]+
Per i radicali alcossilici
2A) R-OOH + Fe3+ => R-OO* + Fe2+ + H+
2B) R-OO* + A-NH2 => R-OO- + [A-NH2*]+
Per i radicali perossilici
Tale derivato, infine, viene quantificato fotometricamente. Infatti, l’intensità del colore sviluppato sarà direttamente proporzionale alla concentrazione dei ROM (in accordo con la legge generale della fotometria di Lambert-Beer). La procedura per l’esecuzione del d-ROMs test è estremamente semplice in quanto è disponile un kit comprensivo di tutto l’occorrente per l’analisi. In pratica, 20 mL di sangue intero, ottenuti mediante prelievo capillare dal polpastrello di un dito, sono disciolti nel reagente R1 (tampone) al quale si aggiunge, infine, il reagente R2 (cromogeno). La soluzione ottenuta viene dapprima centrifugata, per separare la componente corpuscolata del sangue, e poi sottoposta a lettura fotometrica. Il valore di riferimento del test, determinato su un campione di circa 5.000 soggetti sani, è compreso fra 250 e 300 U CARR, indipendentemente dal sesso e dall’età. Tuttavia, i neonati presentano valori sensibilmente più bassi, le gravide più alti. Valori superiori a 300 U CARR configurano, dopo una fascia border-line (301 – 320 U CARR), livelli progressivamente crescenti di stress ossidativo.
lI test è molto semplice. Si effettua utillizzando una goccia di sangue capillare. Consente la determinazione della concentrazione a livello plasmatico di radicali liberi. Il d-ROMs test si basa sulla capacità che hanno i metalli di transizione, una volta liberati dalla forma chelata a proteine di trasporto e di deposito in cui di norma si trovano nel plasma e nelle cellule, di catalizzare reazioni di formazione di radicali liberi secondo la reazione di Fenton. I radicali prodotti, la cui quantità è direttamente proporzionale alla quantità di perossidi presenti nel plasma, vengono intrappolati chimicamente da molecole di un derivato aromatico che li trasformano in ioni ed assumono loro lo stato di radicali liberi dando luogo ad una colorazione valutabile fotometricamente. Il d-roms test quantizza lo stato di ossidazione ematico in termini di u.Carr (unità Carratelli) dal nome dell’inventore della metodica. Il valore di 1 u.Carr corrisponde ad una concentrazione di perossido di idrogeno di 0,08 mg%.
VALORE DI RIFERIMENTO: 250 – 300 U.Carr | VALORE SOGLIA BORDER LINE: 300 – 320 U.Carr
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CONDIZIONE DI LIEVE STRESS OSSIDATIVO: 320 – 340 U.Carr
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CONDIZIONE DI STRESS OSSIDATIVO: 340 – 400 U.Carr
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CONDIZIONE DI FORTE STRESS OSSIDATIVO: 400 – 500 U.Carr
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FORTISSIMO STRESS OSSIDATIVO: OLTRE 500 U.Carr
valori inferiori a 250 U.Carr si possono riscontrare in pazienti con trattamento cortisonico od antiossidante
Nel plasma è identificabile una vera e propria “Barriera Antiossidante”, alla cui costituzione contribuiscono sostanze sia assunte dall’esterno con l’alimentazione (es. carotenoidi, ascorbato, vitamina E, ecc.) che prodotte dall’organismo (es. GSH, proteine, bilirubina, acido urico, ecc.). Ognuno di questi componenti, essendo in grado di “donare”, sebbene in diversa misura, elettroni, blocca la potenziale lesività dei radicali liberi, la cui reattività è proprio legata alla particolare “carenza” di queste piccole particelle negative. Ovviamente, qualsiasi “insulto” a carico di tale barriera consente ai radicali liberi di attaccare e danneggiare le strutture cellulari, ponendo le basi per le lesioni tipiche dello stress ossidativo e di tutte le sue temibili conseguenze (invecchiamento precoce, malattie, ecc.). L’efficienza della barriera antiossidante plasmatica può essere valutata saggiandone la capacità di ridurre un determinato substrato, ossia di dare elettroni ad un agente ossidante (avido di elettroni), che funge da “sensore”. In ultima analisi, infatti, il cosiddetto potere antiossidante altro non è, in termini rigorosamente chimici, che un’attività riducente, cioè elettron-donatrice. Se la riduzione del substrato ossidante (“sensore”) viene fatta avvenire in presenza di un agente (“cromogeno”) che ha la caratteristica di cambiare colore per effetto di reazioni di ossido-riduzione, nel momento in cui tutto il sistema è completo, mettendo a contatto un’aliquota di plasma con il substrato ossidante e il cromogeno, sarà anche possibile, per via fotometrica, con opportuni filtri, “leggere” il segnale indotto dall’avvenuta riduzione e, in definitiva, quantificare l’attività antiossidante presente nel campione di plasma analizzato, ovviamente in termini di potere riducente (rispetto a quel determinato substrato utilizzato come ossidante-sensore).
Il BAP (Biological Antioxidant Potential) test valuta il potere antiossidante del plasma in termini di capacità di quest’ultimo di ridurre gli ioni ferrici a ioni ferrosi, rilevando per via fotometrica, attraverso il FRAS 4, le variazioni cromatiche di un apposito cromogeno. Il BAP test si basa sulla capacità che ha una soluzione di ioni ferrici (Fe3+) complessati ad un particolare cromogeno e, quindi, colorata, di decolorarsi allorché gli ioni Fe3+ sono ridotti a ioni ferrosi (Fe2+), come accade, per esempio, se si aggiunge ad essa un sistema riducente, ossia antiossidante, quale il plasma. Nel BAP test, pertanto, il campione di plasma da analizzare viene disciolto in una soluzione, colorata, ottenuta aggiungendo una fonte di ioni ferrici (FeCl3, cloruro ferrico, reagente R2) ad un particolare cromogeno (un composto a base di zolfo, reagente R1). Dopo una breve incubazione (5 minuti) la soluzione si decolorerà e la decolorazione sarà tanto più marcata quanto più i componenti del plasma testato saranno riusciti a ridurre, nell’intervallo considerato, gli ioni ferrici inizialmente presenti, responsabili della formazione del complesso cromatico. Valutando per via fotometrica l’entità della decolorazione sarà possibile risalire alla quantità di ioni ferrici ridotti e, in definitiva, alla capacità riducente, ossia al potere antiossidante del plasma testato. In pratica, il campione di plasma, ottenuto per centrifugazione del sangue intero, viene disciolto nella soluzione, colorata, ottenuta mescolando il reagente R2 (FeCl3) con il reagente R1 (cromogeno). Dopo 5 minuti di incubazione la soluzione viene sottoposta a lettura fotometrica per l’emissione del risultato. L’intervallo di riferimento stimato del BAP test negli individui normali è > 2200 µM. Una riduzione dei valori del test al di sotto di questo intervallo appare direttamente correlata con una ridotta efficienza della barriera antiossidante plasmatica, come si osserva quasi costantemente negli anziani. Il test è particolarmente utile nella valutazione dell’efficacia dei trattamenti sia specifici che antiossidanti messi in atto in numerose patologie.
Il BAP test consente di determinare l’efficienza della Barriera Antiossidante Plasmatica in termini di attività ferro-riducente. Il valore ottimale è 2200 m Eq/L. Valori inferiori a tale limite segnalano un deficit dei sistemi di difesa antiossidanti.
Grazie a questi due test è possibile porre una diagnosi di laboratorio di stress ossidativo estremamente precisa ed affidabile, ove le due componenti contrapposte, quella pro- ed anti-ossidante possono essere valutate distintamente.
Inoltre si può stabilire in tempo reale se lo Stress Ossidativo è dovuto ad un aumentata produzione e/o ad una ridotta capacità di eliminazione dei radicali liberi. In questo modo anche il monitoraggio della terapia antiossidante può poggiarsi su basi più solide e uscire dalla fase empirica in cui spesso viene a trovarsi.
Fonte sito del Dott. Mauro Mario Mariani www.mmmariani.com
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