Posts Tagged 'fumo'

Artrite, fumo e tè sotto accusa

L’elenco delle conseguenze negative legate al consumo di sigarette sembra infinito. Ora, diverse ricerche giungono alle stesse conclusioni riguardo gli effetti del fumo sulle probabilità di sviluppare l’artrite reumatoide. Il fumo interferirebbe con l’espressione di diversi geni, favorendo i meccanismi patologici alla base della malattia. In tal senso, anche la passione per il tè pomeridiano potrebbe costituire un pericolo, fattore di rischio in particolare per le donne. Al contrario, sembra che bere un bicchiere di vino o altri alcoolici ogni tanto possa ridurre il rischio di sviluppare gravi forme artritiche come appunto l’artrite reumatoide o l’osteoartrite (artrosi). Pare invece non esserci un particolare legame fra consumo di caffè e la malattia.

Questi risultati emergono dagli studi presentati all’ultimo congresso annuale della Lega Europea contro le Malattie Reumatiche (EULAR) a Roma [16-19 giugno 2010]. Due studi realizzati in Svezia dalla Lund University hanno dimostrato che il fumo è un fattore predittivo negativo, sia di una futura diagnosi di artrite reumatoide, sia di una scarsa risposta ai farmaci anti-TNF utilizzati per ridurre l’infiammazione presente nelle articolazioni dei pazienti con artrite reumatoide. Un terzo studio sperimentale realizzato in Svizzera dall’Università di Zurigo ha messo inoltre in luce come il fumo, attivo o passivo, possa alterare la capacità di alcune proteine di stimolare la risposta immunitaria in persone con una predisposizione genetica alle malattie reumatiche, rappresentando un fattore aggiuntivo di rischio per lo sviluppo dei sintomi e per la progressione della malattia. Un quarto studio realizzato negli Stati Uniti dalla Georgetown University su più di 76.000 donne ha scoperto un’associazione positiva fra incidenza di artrite reumatoide e consumo di tè, con un rischio di sviluppo della malattia proporzionale alla quantità di tè assunto, mentre non ha trovato alcun legame significativo fra consumo di caffè e malattia. Al contrario, un quinto studio realizzato in Olanda dall’Università di Leida su un vasto campione comprensivo di 651 pazienti con artrite reumatoide, 73 pazienti con osteoartrite, 273 pazienti con altre forme artritiche e 5.877 soggetti di controllo non malati, ha dimostrato infine che il consumo di alcol è associato a una significativa riduzione del rischio di sviluppare la malattia, ipotizzando che componenti delle bevande alcoliche (specie vino rosso) possano essere un fattore protettivo dallo sviluppo di infiammazione sistemica.

“Gli studi presentati all’EULAR di Roma confermano come alcuni stili di vita possano avere un impatto sul rischio e la progressione delle malattie reumatiche, ma vanno interpretati con estrema cautela e ragionevolezza” ha spiegato il Professor Maurizio Cutolo, Presidente Esecutivo di EULAR 2010. “I pazienti con disturbi reumatici, così come le altre persone, devono sempre consultare il proprio medico prima di modificare in qualsiasi modo il proprio regime alimentare”.

| Andrea Piccoli

La dipendenza da nicotina è scritta nel DNA

Alcune mutazioni genetiche in 4 cromosomi influiscono sulla scelta di iniziare a fumare, sul numero di sigarette consumate e sulla capacità di smettere. E’ quanto hanno appurato tre studi pubblicati ‘Nature Genetics‘. Le varianti genetiche associate alla decisione di iniziare a fumare sono state individuate nel cromosoma 11, quelle per smettere nel 9, e quelle legate al numero di sigarette fumate ogni giorno (il doppio di chi è privo delle mutazioni) ai cromosomi 8 e 19.


Tumore polmonare in non fumatori: scoperto gene!

Uno studio internazionale pubblicato da Lancet Oncology ha trovato un gene che potrebbe essere responsabile dell’insorgenza di cancro ai polmoni in persone che non hanno mai fumato.

I ricercatori di diversi centri americani hanno trovato che nel 30% dei pazienti che non hanno mai fumato c’e’ una stessa variante genetica in un gene chiamato Gpc5. Dai tests in laboratorio è emerso che questo gene ha un’importante funzione di soppressione del tumore, e che una sua espressione insufficiente è data proprio dalla variante trovata nei pazienti. “E’ la prima volta – spiega Ping Yang, genetista della Mayo Clinic e primo autore dello studio – che si è trovata un’associazione specifica tra un gene e il tumore al polmone in persone che non hanno mai fumato. Cosa ancora più importante, abbiamo trovato che il gene e la sua espressione sono coinvolti nello sviluppo del tumore”. Lo studio ha coinvolto 2.272 partecipanti, 900 dei quali hanno sviluppato il tumore, raccolti in 12 anni. Secondo le statistiche il 15% degli uomini e il 54% delle donne che hanno un tumore al polmone hanno fumato in vita meno di 100 sigarette.

Fonte AGIsalute

 

Per smettere di fumare la forza di volontà è meglio dei cerotti!

I fumatori che vogliono veramente perdere il vizio delle ‘bionde’ dovrebbero fare piu’ affidamento sulla propria forza di volonta’, anziche’ sperare nell’aiuto di cerotti, gomme e pillole alla nicotina. Oltre la meta’ degli ex fumatori, infatti, e’ riuscita a smettere puntando tutto su se’ stessi. Questo e’ quanto emerso da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori australiani dell’Universita’ di Sidney e pubblicato sulla rivista Plos Medicine. Per arrivare a queste conclusioni gli scienziati hanno effettuato una revisione di 511 studi sulla perdita del vizio del fumo pubblicati in questi ultimi anni. Ebbene, dai risultati e’ emerso che l’utilizzo di surrogati sostitutivi alla nicotina (cerotti, pillole, gomme, ecc) sono meno efficaci della forza di volonta’ di chi decide di smettere di fumare. I ricercatori hanno inoltre sottolineato che una buona parte degli studi a favore di questi surrogati alla nicotina sono finanziati dalle stesse case farmaceutiche che li producono e che quindi i risultati potrebbero essere influenzati da interessi commerciali. In effetti, i ricercatori hanno scoperto che il 51 per cento delle ricerche che hanno trovato un vantaggio nell’uso di cerotti, gomme e pillole alla nicotina e’ stato finanziato dalle aziende produttrici. Solo un 22 per cento e’ stato condotto in maniera indipendente. Inoltre, nelle ricerche c’e’ un altro fattore da considerare che e’ quello umano. Secondo i ricercatori, infatti giocherebbe un ruolo fondamentale nel riuscire a perdere il vizio il fatto che molti soggetti ci tengono a compiacere i ricercatori. Lo studio australiano ha infine rilevato che dai due terzi ai tre quarti degli ex fumatori, sia quelli che hanno fatto uso di surrogati che quelli che ce l’hanno fatta da soli, e’ riuscito a smettere definitivamente. Di questi la maggior parte ha dichiarato che rinunciare alle sigarette alla fine e’ stato piu’ semplice di quanto si aspettavano. 

Fonte AGIsalute

La pelle invecchia? Il 40% delle cause si può prevenire

Il fumo, l’aumento di peso, il mancato uso di creme per la protezione dal sole e l’insorgenza di patologie come i tumori della pelle sono tra i principali fattori responsabili dell’invecchiamento della cute del viso, tutti indipendenti da fattori genetici. A stilare la classifica è uno studio condotto sui gemelli dai ricercatori della Case Western Reserve School of Medicine di Cleveland, negli Usa, guidati da Kathryn Martires e pubblicato sul numero di dicembre della rivista americana Archives of Dermatology.

A differenza del fisiologico invecchiamento della pelle caratterizzato dallo sviluppo di piccole rughe e di escrescenze, spiegano i ricercatori, il fotodanneggiamento, il sovrappeso e il fumo danno vita a macchie di colore, dilatazione dei vasi sanguigni e rughe grossolane ed evidenti: fino al 40% delle cause del danneggiamento del viso, spiegano gli studiosi, è dovuto a fattori non genetici.

Martires e colleghi hanno analizzato la pelle del viso di 65 coppie di gemelli partecipanti all’incontro annuale del Twin Days Festival in Twinsburg, Ohio, nel 2002, e hanno poi assegnato loro un “punteggio” in base alle rughe e al cambiamento di pigmentazione dovuto al vizio del fumo, al sovrappeso e all’abituale esposizione solare.

“I Twins Days Festival sono una rarissima opportunità per studiare contemporaneamente un gran numero di coppie di gemelli – spiega Martires -. Le relazioni trovate tra il fumo, l’aumento di peso, l’uso della protezione solare e il cancro della pelle indicano che questi fattori sono collegati all’invecchiamento cutaneo indipendentemente da fattori genetici. Per proteggere la pelle si può quindi iniziare a ridurre i comportamenti a rischio“.

Fonte SALUTE24.it

Bastano 15 sigarette per modificare il Dna

Per un polmone nuovo ci vogliono 15 anni, per farlo invecchiare bastano 15 sigarette. Parola degli esperti  del Wellcome Trust Sanger Institute di Cambridge che per la prima volta sono riusciti a catalogare tutti gli errori genetici a cui va incontro il Dna sotto l`effetto delle sostanze chimiche del tabacco.

Sono 23.000 le mutazioni dei geni provocate dal fumo, secondo il nuovo studio del Progetto Genoma Umano dei Tumori pubblicato su Nature. Il nuovo tassello nella comprensione dell`insorgenza e dello sviluppo dei tumori, in particolare quelli del polmone e il melanoma (tumore della pelle), si arricchisce di dettagli inediti. A provocare il caos genetico che conduce alla malattia non è infatti un`unica mutazione, ma una combinazione. “I tumori si verificano quando il controllo del comportamento delle cellule è perso”, spiega Andy Furtreal, uno degli autori della scoperta. A quel punto le cellule crescono come, quando e dove non dovrebbero. Nel caso del fumo, ad esempio, bastano 15 sigarette, secondo i calcoli dei ricercatori, a innescare una singola mutazione. Le variazione negative del Dna si trasmettono poi alle generazioni successive. Per far rientrare l`allarme, secondo lo studio, c`è bisogno di 15 anni di completa astinenza dal tabacco, dopo i quali il rischio di sviluppare cancro al polmone torna a livelli normali.

Fonte SALUTE24.it 

Infarto cardiaco

Infarto cardiacoCos’è? | Si verifica quando l’irrorazione sanguigna del muscolo cardiaco (miocardio) diminuisce o viene a mancare in seguito all’occlusione di una o più arterie coronariche. L’infarto miocardico è una malattia che colpisce più di duecentomila italiani all’anno e che in 1/3 dei casi conduce alla morte. Se l’infarto colpisce solo una zona limitata del muscolo cardiaco, le conseguenze non sono gravi. Se la lesione del muscolo cardiaco è molto estesa, può provocare la morte o un’invalidità (di grado variabile).

Quali sono le cause? | Le arterie coronarie normali appaiono come dei tubi puliti. Ma vi sono dei fattori di rischio che predisporre alla formazione di lesioni aterosclerotiche che alterano le arterie.

Molti sono i fattori che contribuiscono ad aumentare il rischio di infarto miocardico:

1.Età | L’aterosclerosi coronarica, come quella degli altri distretti vascolari, è una malattia di tipo degenerativo, dovuta essenzialmente alla inevitabile senescenza dei vasi; per cui si dice comunemente, non a torto, che abbiamo l’età dei nostri vasi; ed a dispetto di ogni disperata ricerca di ringiovanimento esteriore ed estetico, nessuno può venderci la pillola della giovinezza;

2.Precedenti familiari di infarti | Le malattie cardiovascolari tendono ad aggregarsi in particolari nuclei familiari, per cui si finisce con l’ereditare la predisposizione ad ammalare, ed i discendenti di coronaropatici vanno guardati con particolare attenzione; 

3.Sesso | Per quanto riguarda il sesso, le donne, soprattutto in età feconda, sono relativamente protette rispetto agli uomini dalla aterosclerosi coronarica. Gli indici tendono poi gradualmente a livellarsi dopo la menopausa. Con una Ebct (tomografia a fascio di elettroni) sono state analizzate 541 donne con età media di 48 anni. Quelle in cui l’esame aveva rivelato calcificazioni iniziali (non visibili con esami radiografici tradizionali) dell’aorta e delle arterie coronarie sono andate incontro ad infarto od altra malattia coronarica nei 15 anni successivi l’esame. Un risultato inquietante questa capacità predittiva dell’esame che, proprio per questo, è una formidabile arma di prevenzione. Tutte le donne che hanno modificato il loro stile di vita a rischio (alimentazione ipercalorica e con eccesso di grassi animali) e hanno riportato nei limiti di sicurezza i valori di colesterolo cattivo (LDL) ed elevato quelli del buono (HDL) hanno abbassato il rischio di malattia cardiaca. Va anche detto, però, che l’infarto nelle donne tende ad essere in genere più grave rispetto a quello dei maschi.

4.Livello di colesterolo elevato | I grassi sotto accusa sono il colesterolo totale, la sua frazione LDL ei trigliceridi, il cui tasso aumentato nel sangue è un sicuro fattore di rischio; è un rischio anche la diminuzione del tasso di un’altra frazione del colesterolo, l’ HDL, che ha funzioni protettive. L’ipercolesterolemia di per sé non è una malattia, ma solo un fattore di rischio ed il colesterolo non è un veleno, ma anzi è un costituente fondamentale di tutte le cellule dell’organismo. Il guaio è che per cattive abitudini alimentari il suo livello risulta abnormemente elevato; ciò, sul lungo periodo, può risultare dannoso. I livelli desiderabili di colesterolo sono intorno ai 200 mg/ml ed il dosaggio della colesterolemia rientra in una buona prassi di medicina preventiva, soprattutto nelle fasce di età a rischio (fra i 40 ed i 70 anni), anche se oggi sembra opportuno porsi il problema del suo controllo fin dall’infanzia. E’ dubbio, invece, se valga la pena di effettuare ripetute e frequenti determinazioni del colesterolo in soggetti ultrasettantenni e spesso ottuagenari, anche se è dimostrato che la riduzione della colesterolemia è utile anche in età avanzata. Quello che va evitato è lo stato di ansia e di preoccupazione con cui taluni soggetti in tarda età e spesso abbondantemente di là del rischio “inseguono” affannosamente il loro tasso di colesterolo.

5.Ipertensione
 
6.Diabete 

7.Obesità | Piuttosto che di obesità è meglio parlare di eccesso ponderale. L’eccesso ponderale si accompagna con grande frequenza ad aumento della pressione, della glicemia, dei grassi nel sangue, ed a riduzione dell’attività fisica; inoltre, è un grosso fardello che affatica inutilmente il cuore. Secondo dati recenti nel mondo occidentale circa il 30% della popolazione avrebbe un eccesso ponderale di varia entità. Va precisato, a questo proposito, che si parla di obesità quando il peso corporeo superi del 15% il peso ideale.
La determinazione del peso ideale si ottiene con varie formule. Un criterio abbastanza diffuso definisce come peso ideale il numero di chili pari ai centimetri oltre il metro di statura (quindi, per un uomo alto 1,80 m. il peso ideale sarebbe 80 chili), ma questo criterio è forse più adatto al ventenne che svolga attività fisica; per un sessantenne sedentario appare eccessivamente generoso, e sarebbe consigliabile una riduzione di almeno il 10%. E’ stato anche sicuramente dimostrato che l’aumento del peso del 20% rispetto a quello ideale nei soggetti di media età raddoppia l’incidenza di malattie delle coronarie, e la triplica se l’obesità si accompagna a ipercolesterolemia o ipertensione. Gli obesi malati di cuore vivono in media 4 anni di meno del cardiopatico di peso regolare. L’essere fortemente sovrappeso anticipa poi di 7 anni l’inizio della malattia in chi è predisposto. Negli Stati Uniti è stato anche calcolato che se si riuscisse a debellare il cancro la vita si allungherebbe di meno di due anni, mentre se si eliminasse l’obesità si allungherebbe di 5 anni.

8.Fumo

9.Stress | L’importanza dello stress è generalmente sopravvalutata dai pazienti. In gran parte ciò è dovuto al fatto che è un termine che ha trovato grande successo e diffusione, essendo chiamato in causa per situazioni molto diverse. Essendo utopistico e irrealizzabile l’intento di modificare positivamente l’ambiente in maniera sostanziale, è chiaro che i nostri sforzi sono diretti alla individuazione ed alla eventuale modificazione di quei tratti della personalità che, sottoposti all’influenza ambientale, possano costituire un fattore di rischio per gli eventi coronarici. Numerosi ed approfonditi studi hanno individuato uno specifico atteggiamento comportamentale, definito come personalità di tipo A, che costituisce un sicuro fattore di rischio coronarico. Gli elementi costitutivi del comportamento di tipo A sono rappresentati da una costellazione di atteggiamenti caratteriali che contribuiscono nel loro insieme a determinare uno specifico tipo di personalità.
In sintesi, i tratti distintivi del comportamento di tipo A sono la fretta, l’impazienza, l’eccessiva competitività ed un certo grado di ostilità verso l’ambiente sociale, lavorativo e familiare. Nell’ambito di una strategia riabilitativa globale, in cui gli atteggiamenti psicologici hanno un ruolo fondamentale, la ripresa graduale delle proprie attività, con un’ottica diversa e con una mentalità diversa, favorisce il totale reinserimento sociale, la chiusura di un periodo della vita difficile ed oscuro, culminato con un grave “incidente”, e l’inizio della ricostruzione psico-fisica del paziente, su nuove basi. Sul piano pratico è consigliabile adottare una serie di atteggiamenti di difesa, che potrebbero essere riassunti nei seguenti consigli: eliminare l’eccesso di lavoro; affrontare e risolvere un problema alla volta; crearsi se è possibile un hobby.

10.Sedentarietà | Il tema della sedentarietà, intesa come ridotta attività fisica, è strettamente connesso con quello dell’eccesso ponderale. Una riduzione del dispendio calorico, se si mantengono costanti le entrate, si traduce in un accumulo di grasso ed aumento di peso.”. Accurate indagini statistiche effettuate in un numero rilevante di pazienti hanno consentito di verificare che l’attività fisica si traduce in una diminuzione significativa del rischio cardiovascolare, sia nella prevenzione primaria, cioè nell’evitare un primo infarto, sia, e soprattutto, nella prevenzione secondaria, cioè nell’evitare un secondo infarto in chi ne abbia già subito uno. I meccanismi attraverso i quali l’attività fisica induce effetti benefici sono ben noti, e sono sia diretti che indiretti. Direttamente, l’allenamento fisico, cioè un’attività fisica regolare e costante, produce effetti benefici mediante la riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sotto sforzo, con conseguente risparmio del consumo di ossigeno del muscolo cardiaco, una migliore utilizzazione dell’ossigeno da parte dei muscoli scheletrici, un miglioramento della capacità lavorativa globale, uno spostamento del controllo nervoso del cuore a vantaggio del vago, sistema frenatore e di risparmio, a discapito del simpatico, sistema acceleratore e dispendioso, un innalzamento della soglia a cui compaiono ischemia ed angina durante lo sforzo, ed aritmie minacciose. Indirettamente, l’attività fisica ha effetti benefici attraverso un aumento del colesterolo protettivo HDL, una riduzione dell’aggregabilità delle piastrine, una riduzione della pressione arteriosa, degli ormoni circolanti che stimolano il cuore, della glicemia nel diabete e dei trigliceridi, dell’obesità, dell’abitudine al fumo. Non c’è dubbio, quindi, che l’attività fisica vada incoraggiata ed incrementata e che al contrario la vita sedentaria vada evitata invertendo, così, la radicata tendenza che imponeva periodi di lunga e pressoché completa, e talora definitiva inattività agli infartuati.

Nella maggior parte dei casi, l’infarto miocardico è dovuto alla formazione di un grumo di sangue (coagulo) che ostruisce un’arteria coronarica. Si tratta in questo caso di una trombosi coronaria. E’ più raro che la contrazione temporanea (spasmo), di un’arteria coronaria possa scatenare un infarto.

Quando si verifica | L’infarto è in genere la conseguenza drammatica di una malattia che è iniziata molti anni prima senza manifestarsi fino a quel momento; le cause scatenanti, che in un determinato momento fanno bruscamente precipitare una situazione mantenuta in equilibrio fino ad un istante prima sono assai variabili e non sempre identificabili. Talora il dolore si verifica durante un intenso sforzo fisico compiuto da un soggetto non allenato: la partita di calcio “scapoli-ammogliati” effettuata magari dopo un anno di lavoro a tavolino e magari sotto il solleone e dopo abbondanti libagioni, è responsabile di molte precoci vedovanze. A volte, in associazione ad uno stress psicologico intenso e prolungato, come conflitti o litigi nell’ambito familiare o lavorativo; talora si tratta di forti ed improvvise emozioni a contenuto sgradevole, come aggressioni, rapine, coinvolgimento in incidenti stradali ed in disastri come terremoti, alluvioni, incendi, etc. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi non si riesce ad individuare il meccanismo scatenante dell’evento infartuale, e va anzi ricordato che studi ormai numerosi di cronobiologia hanno dimostrato in maniera inconfutabile che il maggior numero di infarti si verifica nelle primissime ore del mattino quando il paziente è in completo riposo. Gli infarti fatali avrebbero, inoltre, una stagionalità tra dicembre e gennaio.

Quali sono i sintomi? | La parola angina introduce l’elemento soggettivo della sofferenza ischemica del muscolo cardiaco: il sintomo dolore. Sia l’ischemia che l’infarto generalmente provocano dolore anginoso, ed in genere il dolore dell’infarto è più intenso e soprattutto più prolungato. Il primo sintomo dell’infarto cardiaco è il dolore, si manifesta come un senso di fastidio al petto. La sensazione di oppressione, compressione, dolore o peso nel centro del petto si può irradiare alle spalle, al collo, alle braccia o alla schiena. Spesso l’infarto si rivela con l’insieme dei seguenti sintomi: Abbondante sudorazione fredda nella parte superiore del corpo, stordimento, mancanza di fiato e nausea.  La mancanza di fiato è dovuta all’impossibilità del cuore di pompare in modo efficace e determina, in alcuni pazienti, una sensazione di oppressione al petto come una corda che stringe. Se si è in grado di riconoscere i sintomi dell’angina e dell’infarto, si potrà essere in grado di salvare la vita a se stessi o agli altri. Se invece non si riconoscono i sintomi o si attribuiscono ad un altro disturbo (un’indigestione…) il trattamento dell’infarto arriverà troppo tardi. Purtroppo, in una buona percentuale di casi, sia l’ischemia che l’infarto possono non accompagnarsi a dolore: condizioni queste rispettivamente definite ischemia silente ed infarto silente. La prognosi, il decorso ed il rischio dell’ischemia e dell’infarto silente non differiscono sostanzialmente dalle forme che si accompagnano a dolore; non si tratta di forme “lievi” della malattia; anzi, l’assenza di un campanello di allarme come il dolore può esporre in definitiva il paziente ad un rischio maggiore.

Qual è la differenza tra infarto ed ischemia? | S’intende per ischemia lo stato di sofferenza del muscolo cardiaco non sufficientemente irrorato. C’è una differenza fondamentale tra infarto ed ischemia. L’infarto è un’interruzione totale del flusso del sangue al cuore, i cui sintomi durano più di 15 minuti, non scompaiono con il riposo o con i farmaci (con la nitroglicerina sono solo alleviati) ed una parte del muscolo cardiaco incomincia a morire. E’, quindi, una condizione stabile ed irreversibile. L’ischemia è transitoria e reversibile; consiste in una temporanea interruzione del flusso di sangue ossigenato al cuore; i sintomi durano pochi minuti e si possono alleviare con il riposo o con i farmaci. Ciò che determina il punto di passaggio fra ischemia ed infarto è la durata dell’assenza di flusso; infatti, il muscolo cardiaco riesce a tollerare l’assenza di irrorazione per un tempo limitato (meno di 30 minuti), al di là del quale comincia ad andare in necrosi, a morire. Nella maggioranza dei casi, l’ischemia si determina quando, a fronte di una maggiore richiesta di ossigeno e materiali nutritivi, e quindi di un aumento di flusso, determinata da un’attività fisica più o meno intensa, questa richiesta non può essere soddisfatta a causa dei restringimenti (stenosi) prodotti all’interno delle arterie coronarie dalla malattia aterosclerotica. Si crea così una discrepanza transitoria fra necessità di apporto e possibilità di adeguamento dei flussi; questa è la condizione detta “angina da sforzo”.

Cosa succede nella zona del cuore in cui le cellule sono morte? | In alcuni casi di infarto la porzione di parete del muscolo cardiaco non più contrattile, cicatriziale ed assottigliata, protrude durante la contrazione (in sistole), dando luogo a quello che si definisce aneurisma ventricolare. Questa, comunque è una conseguenza abbastanza rara dell’infarto; generalmente, invece, l’assottigliamento della zona infartuata, pur senza dar luogo all’aneurisma, finisce col provocare un’alterazione più o meno grave della geometria ventricolare, che risponde a precise e rigorose leggi fisiche, ed un deterioramento della funzione meccanica della pompa. E’ intuitivo che le conseguenze “meccaniche” dell’infarto saranno tanto più gravi quanto più estesa è la zona assottigliata e non contrattile; generalmente, si ritiene che l’infarto sia più o meno grave in relazione alla sede (anteriore, o posteriore o inferiore). Tradizionalmente si ritiene che l’infarto posteriore o inferiore sia meno grave di quello anteriore; questo potrà anche essere vero, ma la cosa più importante nel determinare la prognosi sia immediata sia a distanza dell’infarto non è tanto la sua sede, quanto la sua estensione. È meglio, quindi, sotto questo aspetto, distinguere infarti piccoli e circoscritti da infarti estesi. Inoltre, i danni meccanici prodotti da un eventuale secondo infarto, soprattutto se questo interessa una zona diversa dal precedente, si sommano a quelli provocati dal primo.

Quando consultare il medico? | Ogni sintomo che segnali l’inizio di un infarto impone l’immediata consultazione del medico. Se il medico non è rintracciabile, chiamare un’ ambulanza e raggiungere immediatamente il pronto soccorso dell’ospedale più vicino.

Cosa fanno al pronto soccorso? | Una volta chiarito che il confine fra ischemia ed infarto è solo temporale, e che vi sono dei tempi, anche se ristretti, e dei mezzi che consentono di arrestare l’evoluzione dell’ischemia in infarto, si capisce bene l’importanza del fattore tempo. Gli specialisti del pronto soccorso, dopo un elettrocardiogramma di conferma, avvieranno subito le analisi del sangue per dosare gli enzimi liberatisi durante l’infarto dal muscolo cardiaco (mioglobina, troponina, GOT, GPT, LDH, CK, CKMB).

Qual è la terapia per l’infarto miocardico? | Fino a poco tempo fa la terapia consisteva essenzialmente nell’alleviare il dolore e nel trattare le complicanze precoci. La moderna terapia della malattia coronarica si basa su tre cardini: le cure mediche (nuovi farmaci, conosciuti con il nome di trombolitici, permettono oggi di sciogliere rapidamente i grumi di sangue all’origine della maggior parte degli infarti), la chirurgia del bypass aorto-coronarico, e la dilatazione con palloncino delle coronarie stenotiche (angioplastica coronarica).

Come evitare l’infarto miocardico?

  • Smettere di fumare;
  • Mantenere il peso ideale;
  • Alimentarsi con cibi poveri di grassi animali;
  • Praticare un esercizio fisico regolare e senza eccessi;
  • Mantenere a livelli normali la pressione arteriosa, il colesterolo e la glicemia.

Si può ritornare ad una vita normale?

Un infarto piccolo non ha conseguenze gravi. La riabilitazione ed una terapia appropriata permetterà al muscolo cardiaco di riprendere la propria funzione e lascerà solo strascichi trascurabili. Il 50% delle persone colpite da un infarto miocardico ritornano ad una vita normale nel giro di pochi mesi.

I numeri del cuore italiano
300: casi di infarto ogni 100.000 abitanti;80.000: infarti diagnosticati ogni anno;8%:casi di reinfarto ad un anno dal primo evento;

200.000: persone con fibrillazione atriale… delle quali;

Il 5-7%: lamenta, ogni anno, embolie cerebrali con decadimento delle funzioni cognitive sino alla demenza;

250: casi di ictus ogni 100.000 abitanti;

35-40%: casi di ictus in meno con la riduzione di 5-6 mmHg di pressione sistolica;

1.000.000: sopravvissuti ad almeno un infarto.

a cura del Centro per la Lotta Contro l’Infarto

Condividi su Facebook

Il fumo spegne i sapori perché mette ko le papille gustative

Le sigarette uccidono i sapori non solo perchè lasciano in bocca il gusto di tabacco ma perchè fumare mette «fuori uso» le papille gustative. Lo dice uno studio pubblicato sulla rivista BioMed Central da Pavlidis Pavlos dell’Universitaì Aristotele di Thessaloniki in Grecia, che ha dimostrato come i fumatori abbiano sulla lingua un minor numero di papille gustative rispetto a chi non fuma, e che quelle rimaste sono più piatte del normale.

SigarettaLO STUDIO – Gli esperti hanno esaminato la lingua di 62 persone, di cui 28 fumatori. In un primo esperimento hanno misurato la loro soglia di sensibilità ai sapori usando degli elettrodi collegati alle papille fungiformi, un tipo di papilla gustativa. È emerso che la soglia di percezione del sapore è più alta nei fumatori, ovvero questi sono meno sensibili ai sapori, infatti serve una maggiore intensità di corrente per accendere le papille dei fumatori. Nella seconda parte della ricerca i ricercatori hanno usato un endoscopio per studiare forma, numero e dimensioni delle papille. È risultato che sulla lingua dei fumatori ce ne sono meno e quelle presenti sono di forma più appiattita. Secondo gli esperti, quindi, le sigarette mandano in fumo i sapori guastando le «antenne» predisposte per captarli.


da gennaio 2011 ci trovi su HarDoctor News, il Blog

da gennaio 2011!

Il Meteo a Marsala!

Il Meteo

Bookmark & Share

Condividi con ...

Farmaci a prezzi imbattibili!

Farmacia On Line